Primo il corpo

Bompiani, Milano, 1971, pp. 163

Questo sorprendente romanzo di Giuseppe D’Agata è un romanzo fatto “a treccia”: come dire che, invece di uno spunto, ne ha due. Il primo costituito da una viaggio, naturalmente immaginario, che Leonardo da Vinci, giovanissimo, compie nell’anno 1469 attraverso una Francia affogata in una sorta di diluvio, e di cui riferisce a tre discepoli (A., B. e C.), raccontando del suo incontro con François Villon, l’infame poeta maledetto in fuga da Parigi, vecchio, sanguinante, ubriaco e tuttavia ancora avido di vertigini amatorie. Un viaggio alla ricerca del senso delle cose, della vita, dell’arte e della morte. Il secondo è costituito invece dal rovello mentale di un pittore di anatomie dei nostri giorni, deluso e prigioniero di rancori morali e ideologici, intorno a una relazione scientifica che tratta con gelida, provocatoria e persino crudele insistenza, di un’orrenda tortura della carne, della “rivolta cellulare”, del turpe Innominabile. Un libro, dunque, che dura cinque secoli della “cultura moderna”, e che si sviluppa intorno a un nucleo ideale, a un’interrogazione sui rapporti tra linguaggio e vita, tra scienza e arte, tra menzogna e verità. Ma intorno a questo nucleo si succedono le fasi di una duplice avventura emotiva ed erotica; deflagrano grumi di generosa vitalità; si addensano come in un giuoco di ombre e profili di due indimenticabili coppie di prototipi umani; si alternano amplessi di milleriana e insieme arcaica corposità… E si compone una “favola” moderna che è un’impavida radiografia di un’era del mondo: la favola in cui le cose della vita (la scienza, la poesia, il lavoro, l’amore, il sesso) ritrovano la loro origine viscerale; la favola in cui ciò di cui l’uomo è veramente fatto, cioè la materia organica, finalmente inscena la propria ribellione. Ed è naturale che questa ribellione sia consegnata a un libro fondamentalmente allegro: allegro come gesti di scrittura, allegro per coraggio.
(dalla quarta di copertina)

 

Critica

Scrittore fuori regola Giuseppe D'Agata non si è mai preoccupato (ostentatamente) della propria coerenza narrativa, mantenendo un'unica fedeltà: di rendersi disponibile ad ogni forma di narrare (pur di dar sfogo al suo estro inventivo caricaturale) e di non tradire il suo pubblico. Così D'Agata ha firmato una delle satire di costume più pungenti dei nostri anni, come Il medico della mutua, e insieme una delle sceneggiature meno banali, per la sua carica fantasiosa, dei teleromanzi popolari, come Il segno del comando. Non stupirà quindi ora apprendere che questo scrittore ha tentato di usufruire delle tecniche sperimentali del romanzo ad incastro, narrando in questo Primo il corpo (ed. Bompiani, pp. 163, lire 2000) due storie intrecciate e fra loro complementari: l'una, datata 1469, con protagonista un curioso e fiducioso Leonardo da Vinci: l'altra, datata 1969, con protagonista un pittore di forme anatomiche, ideologicamente frustrato e nevrotico, come ogni regolare personaggio di romanzo novecentesco.
Nella prima sezione si assiste all'incontro di Leonardo con François Villon, durante una notte tempestosa, in uno scorcio di paesaggio francese piovoso. È l'incontro tra l'“idealista” Leonardo, che cerca le armonie delle superfici pulite del mondo e del “realista” Villon che scava tra il putridume che sta sotto quelle levigate superfici. Siamo agli inizi della civiltà moderna, quando è lecito ancora ad un Leonardo scomporre gli uomini, estrarre da essi ogni particolare bello, per creare l'uomo “perfetto” e nella sua contemplazione riposare.
A distanza di cinquecento anni ciò non è più possibile. C'è un altro Leonardo, anch'egli pittore di forme anatomiche, impiegato in un obitorio alle dipendenze di un professore che compila un trattato di anatomia. Ma il nuovo Leonardo non ha la fiducia dell'antico. Il suo professore può ben illustragli tutta la bellezza degli organi umani, la compattezza delle cellule che formano il fegato, il cuore, la milza, la loro varietà di colori. Per il nuovo Leonardo c'è un nuovo Villon, un chirurgo spietato che apre quelle superfici ben levigate, quegli strati ben organizzati di cellule e scopre altre cellule che distruggono, le cellule dell “innominabile” (il cancro) che creano disordine dove c'è organizzazione, distruzione dove c'è vita, sozzura dove c'è pulizia.
L'anatomo Leonardo e il chirurgo Villon sono le due simboliche rappresentazioni di un'umanità fiduciosa e sfiduciata, in eterno contrasto tra di loro. Dietro di essi D'Agata che si scopre (non senza timore) narratore all'improvviso interessato a problemi forse troppo profondi e a misteri cosi impenetrabili, dopo essersi limitato ad ascoltare dispute e dissertazioni; forse un po' spaventato dal gioco inscenato, preferisce risolvere tutto in un finale-bella in cui confonde le carte, rimescolandole con tanta cura da far perdere ogni traccia del suo gioco.
Giorgio De Rienzo, Da Vinci Leonardo, «La Stampa Sera», 24 agosto 1971.

 

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