MemowRusconi, Milano, 1987, pp. 271 (Azbuka klassika, Sankt Peterburg, 2004) Un soffio di antica magia appare Il lettore troverà qua dentro una buona meraviglia, procedendo avanti nelle pagine e fino all'ultima riga.
CriticaMa chi l'ha detto che i narratori italiani non sono più capaci di inventare storie? Bè, l'abbiamo detto in molti, annaspando nell'oceano di autobiografie, infanzie, raggelate metafisiche, raccontini in punta di penna, vuoti reportages dello sguardo, coprolalie torrenziali, che come un'onda di piena ci si abbattono addosso da parecchi anni, il tutto protetto dall'etichetta romanzo. Bene, Giuseppe D'Agata deve averci sentito, e si è messo subito al lavoro per smentirci. Lui, veramente, di storie ne aveva sempre inventate molte: a partire dal Medico della mutua, il suo lavoro più noto e fortunato, e anche se non si era sottratto ad una narrativa di ricerca, per esempio con America oh kei, uscito tre anni fa e ora tradotto in russo, aveva costantemente perseguito l'idea di una narrativa di fatti, desunti dalla realtà o dall'immaginazione, capaci di combinarsi in un intreccio serrato che lasciava ben poche maglie aperte all'intervento in prima persona dell'autore, rammemorante o meditante che fosse. Ma ora, con questo Memow (Rusconi, pagg. 270, lire 22.000), ha fatto, in quella direzione, un ulteriore passo avanti. Qui l’invenzione addirittura deborda: di storie in grado di sostenere ognuna un romanzo intero ce ne sono almeno tre o quattro, e si intersecano continuamente, prestandosi a vicenda particolari e spiegazioni, dettagli, ambienti e atmosfere. Devo confessare il mio imbarazzo nel tentare di dar conto dell'intreccio: ho come l'impressione che sarebbe necessario più o meno lo stesso numero di pagine del romanzo, tanto fitta è la trama degli eventi e dei rimandi. Un'idea comunque bisognerà pur darla, se non altro per dovere d'ufficio. Proviamoci. Tutto comincia, dunque, con una strana famiglia bolognese ai cui esponenti maschi, nelle varie generazioni, capita invariabilmente di avere un figlio a quarant'anni e di morire a sessanta, per responsabilità più o meno diretta del loro figlio ventenne. Il cognome di famiglia è Mascaro, ma ciò che inquieta sono i nomi di volta in volta imposti a quei figli assassini: Gerofante, Astarotte, Alichino... Diavoli, insomma, che perpetuano con oscure finalità una stirpe destinata a morire per fuoco. L'ultimo rampollo di tale stirpe, Alichino appunto, lavora in un Banco di prestiti multinazionale, e il suo compito è setacciare l'archivio per individuare i debitori speciali, il cui nominativo è immediatamente segnalato alle gerarchie superiori, che provvedono ad estinguere il credito con la morte, sempre accidentale o naturale, del debitore. Compiuti i vent'anni, Alichino si imbatte in archivio nel nome del padre Astarotte. Ligio al dovere lo segnala, e Astarotte muore il giorno di Natale per una sorta di autocombustione interna. Passano quarant'anni, e ritroviamo Alichino sessantenne a New York, più o meno ai giorni nostri, nella sede centrale della multinazionale. Il suo lavoro è sempre lo stesso, solo che ora l'archivio è computerizzato, e Alichino può disporre di una macchina enormemente progredita, il Memowriter 402, da lui chiamato affettuosamente Memow. Memow non solo gli segnala i nomi dei debitori speciali, ma è anche in grado, grazie alle informazioni che possiede, di far parlare in prima persona, sul videoterminale, detti debitori, raccontando con impressionante evidenza le loro storie. E accade naturalmente che un giorno si formi sullo schermo il nome Alichino Mascaro, giunto per l'appunto alla scadenza fatidica del sessantesimo anno d'età. Ma Alichino, diavolo malgré lui, non ha nessuna voglia di morire, e si dà allora, con l'aiuto di Memow, a inventare la vicenda di un suo inesistente alter ego di Roma, giornalista implicato in losche storie di traffico di droga, terrorismo e spionaggio, sperando di convincere il computer centrale della Ditta che la segnalazione del suo nome è dovuta a un caso di omonimia. Nasce così un romanzo nel romanzo, con la storia del secondo Alichino che prende sempre maggiore spazio rispetto a quella del primo; e il tutto troverà una conclusione ancor più complicata, che naturalmente non rivelerò. Lo avevo detto: un riassunto è praticamente impossibile, e quel che è peggio è che non rende affatto giustizia a un romanzo che proprio sul suo eccesso di trovate riesce a fondare un mirabolante equilibrio. Non solo infatti i conti dell'intreccio tornano alla fine miracolosamente tutti; ma soprattutto il perfetto dosaggio nei tempi della sceneggiatura fa in modo che il perpetuarsi costante della suspense finisca col comunicare una sottile angoscia. E già: quell'esibizione così smaccata di nomi diabolici e stregonerie, di macchine pensanti e disegni misteriosissimi, potrebbe all'inizio far sospettare che Memow sia una sorta di divertissement un po' gratuito, un esercizio di ironia un po' vuoto. Ma quando si è arrivati in fondo, ci si accorge che il meccanismo narrativo messo in piedi da D'Agata è così coinvolgente, per sua propria forza e virtù, da costringere a prenderlo sul serio. E senza la più piccola astuzia ideologica o morale da parte dell'autore. Sebbene le vicende costeggino alcuni tra i più atroci misfatti del nostro secolo (dai campi di sterminio nazisti al terrorismo internazionale), quegli stessi misfatti divengono per incanto pura linfa romanzesca, sulla quale non si esercita alcun giudizio, ma solo un'invenzione felicemente combinatoria. Narratore di mestiere, D'Agata? Può darsi. Ma ce ne fossero in Italia di scrittori capaci di farlo così bene! |