I ragazzi del coprifuoco

Dario Flaccovio, Palermo, 2005, pp. 254

Un uomo va in ospedale per sottoporsi a un esame. Lì incontra il suo vecchio comandante partigiano, ricoverato per un tumore. Per il narratore è l’occasione per ripercorrere le vicende di una adolescenza inquieta, compreso l’avvicinamento alla causa partigiana. La memoria ritorna ai primi incarichi, come attaccare manifesti durante il coprifuoco. All’orchestrina jazz costituita insieme ad alcuni amici. Alla prima volta in cui incontrò il comandante. E, all’indomani della Liberazione, quando il nuovo comandante ordinò di andare a requisire tutte le biciclette dei fascisti, salvo poi darsela a gambe con i soldi ricavati dalla vendita. Un romanzo che dalla memoria trae materia viva e attuale, con uno stile che ricorda Simenon.

 

Critica

Una trascrizione prettamente esistenziale, non agiografica della Resistenza: furono pressappoco queste le parole con cui Gianfranco Contini definì il racconto lungo di Beppe Fenoglio I ventitré giorni della città di Alba. Parole che perfettamente si attagliano all'ultima fatica di Giuseppe D' Agata, I ragazzi del coprifuoco (Dario Flaccovio editore, pagine 254, 14 euro, presentato venerdì scorso al Salone del libro di Torino): un romanzo in cui l'esperienza della guerra partigiana è raccontata in modo asciutto, senza concedere nulla alla retorica della rievocazione, ma anzi attraverso una visione dei fatti e dei personaggi ironicamente disincantata. Fatti e personaggi che restituiscono il sapore agrodolce di quei giorni, l'eccitazione, il coraggio, la paura e lo smarrimento di chi si trovò a combattere dall'altra parte delle barricate. I protagonisti della storia raccontata da D'Agata sono così reali, fatti di carne e di nervi, che quasi si ha l'impressione di trovarseli davanti, e questo lo si deve anche alla verosimiglianza dei dialoghi, scarnificati e sempre plausibili, e allo spazio, sempre preciso, disegnato dettagliatamente dalla narrazione. Uno spazio dapprima claustrofobico: quello del sanatorio, luogo affabulatorio per eccellenza, dove i due personaggi principali della storia si incontrano apparentemente per caso. Si tratta del comandante di un drappello di antifascisti e del suo sottoposto: il primo è ormai in lotta contro un male mortale; il secondo è un medico che però non esercita, posseduto dal demone della scrittura e da una preoccupante ulcera. Il loro sembra un incontro col destino a lungo procrastinato, una resa dei conti col passato che finalmente si avvera. Il comandante, Mistico lo chiamavano, ha ormai gli occhi che sembrano degli spiragli liquidi, e le mani tenere e bianche che pare debbano rompersi da un momento all'altro. Occhi che però si animano non appena mettono a fuoco la sagoma dell'amico. Il suo torace è stretto in una fasciatura spessa, di cui si vede un pezzo, un triangolo sopra il primo bottone del pigiama, e il suo braccio è trafitto dall'ago di una fleboclisi. È davvero icastico il modo in cui D'Agata riesce a rendere sulla pagina il pudore dei due, l'imbarazzo che deriva dalla presa di coscienza del tempo trascorso, dei guasti che questo ha lasciato, della Storia che ha graffiato due esistenze. L'incaglio iniziale viene però superato sull'onda dei primi ricordi che riaffiorano: le partite a bigliardo, con gli occhi dei ragazzini puntati quasi ipnoticamente sull'asta e sulla palla, ansiosi di rubare una mossa, un minimo movimento, anche il più impercettibile. E poi l'incontro iniziale tra i due, una sorta di arruolamento sotterraneo e inevitabile, e la prima missione: riempire, complice l' oscurità della sera, i muri di Bologna di manifesti. Nelle pagine di D'Agata non si assiste allo stravolgimento straniante dei fatti narrati: nessuna epica picaresca. Anzi, il compito di tappezzare la città comincia a diventare quasi noioso: sulle montagne si combatte la vera battaglia. Ma il comandante tiene a freno i bollenti spiriti del suo sottoposto: è lì, in città, che hanno bisogno di lui. Nel frattempo, la ferocia del nemico sembra ormai al punto di non ritorno, come pure le sorti dello scontro: si è quasi alla resa finale, e occorre tenere duro. Per fortuna che l'amicizia con Davide, l'ascolto della musica jazz, con le sue note di libertà, rendono al protagonista del romanzo la vita meno dura. C'è la voglia di vincere, più importante del pane e della libertà, che mette in moto le azioni, che trasmette elettricità; ma anche la consapevolezza, quasi crepuscolare, che quella con la vita è la battaglia più dura da vincere; quella che, con crudeltà, può metterti definitivamente in scacco.
Salvatore Ferlita, Le angosce esistenziali dei ragazzi della Resistenza, «Repubblica», 10 maggio 2005.

Anche se molto è stato detto in sessant'anni sulla guerra e sulla Resistenza, non tutti i peccati sono stati assolti, non tutti i ricordi hanno trovato un pubblico pronto ad ascoltare. I testi più urgenti non necessariamente i migliori – hanno visto la luce nell'aree dei quindici anni successivi alla Liberazione. Lo dice Gabriele Pedullà nel magistrale saggio introduttivo al volume einaudiano. Racconti della Resistenza, in cui il curatore ottiene – per la prima volta – lo scopo di annegare la retorica in una diversificazione ideologica che riassume, anche, le diverse modalità d'approccio alla scrittura, dalla ruvida propaganda politica alla sublimazione degli eventi nell'epica della memoria. L'antologia raccoglie, in un coro di voci maiuscole, molte pagine già conosciute ma essenziali sull'argomento: i soliti grandi noti, da Calvino a Rigoni Stern, da Vittorini a Pavese, Fenoglio, Primo Levi, Pratolini, Bilenchi. Ogni nome un inchino, un moto d'orgoglio patrio che ci allontana con sollievo dal degrado milionario delle "melissepì" e dei saldi d'autore di stagione. Un volume da adottare in tutte le biblioteche scolastiche – che poi manchino i fondi per farlo è un altro penoso discorso – poiché offre un consuntivo esemplare della letteratura bellica, con pagine ormai mitiche oltre che memorabili. Una sola mancanza: Pedullà non cita il Cielo chiuso di Gino Montesanto, recentemente riproposto da Diabasis, un romanzo ancora molto attuale in tempi di revisionismo forzato, basato sulle scelte opposte di due fratelli nei giorni più cupi del secondo conflitto.
Che qualcosa da dire sul tema ci sia ancora lo dimostra l'uscita di due libri di autori quasi coetanei, Luca Canali e Giuseppe D'Agata. La memoria ha bisogno di sostegno concreto, il tempo allontana e modifica, i giovani dimenticano, sorvolano, vanne oltre. Sono dunque da accogliere con favore, al di là del valore letterario, queste proposte che lanciano l'ennesimo segnale a chi vorrebbe accantonare la presenza morale di quanti davvero conquistarono col sangue quella libertà con cui si riempiono la bocca i nostri politici.
I racconti di Canali riuniti in La sporca guerra esemplificano il senso di disagio e di smarrimento della gioventù che visse il conflitto e il caos della Repubblica Sociale. È l'autore stesso a rispolverare le sue vicissitudini romane fino all'arrivo degli Alleati nel breve testo introduttivo "Fuggiasco", una narrazione agile, quasi alleggerita dagli anni, in cui sfuma nella malinconia il ricordo della gioventù bruciata dalla guerra. Gli altri racconti ci presentano personaggi estremi e irrisolti, vittime sconosciute ed eroi casuali nel polverone del conflitto, dalla bella Mila delatrice per vendetta – "Le gallerie" – all'ingenuo studente Luigi Corsieri, incapace di prendere una posizione coerente nella confusione dei giorni più intensi della Resistenza, ritrovandosi solo a rimpiangere gli amici persi a causa dei suoi errori: "L'innocenza dei colpevoli" misura con freddezza e rammarico lo smarrimento che certo appartenne a molti giovani incerti tra passato e futuro, in un mondo privo di psicologi e opinionisti dell'ultima ora. Se il volume di Canali ha una sua valenza più esplicitamente narrativa, il ritorno al romanzo di Giuseppe D'Agata dopo anni di silenzio – si presenta come un testo definitivo, almeno per l'autore, sulla memoria della Resistenza. I ragazzi del coprifuoco è un libro bello e triste, in cui lo scrittore, che parla attraverso il sue alter ego un po' acciaccato dagli anni e da un brutto intervento chirurgico, ritrova per caso i giorni della corsa alla libertà in un letto d'ospedale: il vecchio emaciato ma dignitoso accucciato in fondo a una camera di degenza è infatti "il comandante", l'ex ragazzo ventenne che guidò le sue incerte scorribande adolescenti sulle strade della Resistenza. L'incontro è commovente ma non patetico, nobile ma non eccessivo, e offre la base per una rincorsa della memoria, in una Bologna tra il 1944 e il '45 in cui il giovane figlio del tipografo cerca la sua apertura verso il futuro, tra l'amore per i libri, la scoperta del jazz, i primi volantinaggi notturni sui muri della città nel buio dopo il coprifuoco. Il romanzo racconta la storia di quei giorni con leggerezza e disincanto, poiché il ricordo mantiene intatta l'irruenza della gioventù, gli entusiasmi che la maturità attenua nella pacatezza. I due ex ragazzi del coprifuoco hanno accumulato ricordi, rughe e malanni, ma dell'epica battaglia allora intrapresa hanno mantenuto intatta la consapevolezza di aver agito in nome di una libertà universale, non contraddittoria, non strumentalizzata da opportunismi politici postumi. Tra i ricordi e la faticosa realtà del presente è sfumata la vita, ma gli insegnamenti di uno che a vent'anni era già "il comandante" sono rimasti, hanno dato respiro a un mondo libere in cui molti di noi ancora credono, sperando che non si tolga il microfono alla memoria, sperando che non tutto finisca quando chiuderà gli occhi l'ultimo di quei remoti ragazzi del coprifuoco.
Sergio Pent, Tutti gli inchiostri della Resistenza, oltre ogni retorica, «Tuttolibri», 11 giugno 2005.

Un romanzo sulla Resistenza oggi sorprende il lettore come fosse un vezzo anacronistico e "fuori moda". E addirittura come se lo scriverlo avesse nuovamente a che fare con la clandestinità e l'azzardo, tanto potente è stata l'onda revisionista, e la rimozione dell'antifascismo come humus esistenziale e politico dell'Italia moderna. Così si apre I ragazzi del coprifuoco di Giuseppe D'Agata con il timore di trovarci solo la caparbia rivendicazione di un'esperienza (quella di un ragazzo della Brigata Matteotti, partigiano in Bologna) anche troppo celebrata, in letteratura e altrove, nei primi anni della Repubblica, e negli ultimi decenni relegata a "verità di regime" e infine seppellita dal negazionismo. La sorpresa è imbattersi, al contrario, in un libro sereno, quasi aristocratico nell'asciuttezza ammirevole dei ricordi, nella rievocazione di un'Italia giovanissima e dalle speranze intatte. L'innesco narrativo è il casuale incontro in ospedale tra l'autore (io narrante) e il suo comandante partigiano, oramai morente, a mezzo secolo di distanza dalla comune giovinezza. D'Agata interfaccia immagini e sensazioni della vita declinante, e medicalizzata, con il flusso vivido dei ricordi: il jazz, le Chesterfield fumate in punta di spillo per sfruttare l'intero mozzicone, le azioni notturne di attacchinaggio, il carcere, il rischio, l'urgenza biologica prima che ideologica di combattere per la libertà. Non una sola riga del libro si accampa a spiegare o rivendicare, la sola premura di D'Agata è raccontare, e nel racconto esprimere la struggente semplicità di una scelta compiuta per amore della vita (della musica, del calcio, delle ragazze, del biliardo, degli amici), contro l'ossessione nera, "romantica" e necrofila, dei repubblichini. Lo sfondo è una Bologna, per chi la conosce, quasi identica all'attuale, segno impressionante di quanto siano storicamente a noi prossimi, in realtà, quegli anni che crediamo remoti.
Michele Serra, Una Resistenza senza inutili vezzi, «Repubblica», 11 giugno 2005.

Non è vero che non esistono più i buoni narratori italiani. Ci sono ancora, non sono tutti estinti, solo che non li trovate tra i fenomeni pompati dalla stampa berlusconizzata e dalla televisione. E allora astenetevi da letture tipo Busi, Camilleri, Baricco, Faletti, Piperno (ultima leva tra i best-seller un tanto al chilo), ché tanto mica vi perdete niente. Se volete trovare scrittori veri cercate tra gli scaffali dell’editoria più piccola che investe su nomi interessanti e non vi fermate alla solita sbobba televisiva. Io sono stato fortunato, ché uno di questi libri importanti di cui si parla poco l’ho ricevuto in omaggio da Dario Flaccovio, scopo recensione. Certo, non è un libro scritto da un giovane esordiente. Non so se vi ricordate Il medico della mutua o Il segno del comando, l’autore era sempre lui, Giuseppe D’Agata. Uno scrittore vero. Giuseppe D’Agata ha fatto il partigiano, è stato medico (ma ha praticato poco) e soprattutto ha scritto diversi bei libri che parlano di vita quotidiana con la classe di chi sa raccontarla senza prendere in giro il lettore. Il suo ultimo lavoro è I ragazzi del coprifuoco e parla di Resistenza, un argomento sfruttato al massimo ai tempi del Neorealismo, da gente come Fenoglio, Calvino, Cassola, Pavese, tutti scrittori veri, di grande peso. Difficile confrontarsi con i mostri sacri della narrativa e uscirne bene come ha fatto D’Agata, che non è un Piperno qualsiasi, uno che i barzellettieri televisivi paragonano a Roth. D’Agata ha la scrittura leggera e ammaliante di un Fenoglio, cominci a leggere le prime pagine e non lo molli più, devi andare avanti per forza, come stregato da una storia che ti trasporta in un passato fatto di ricordi. Il protagonista incontra in ospedale il comandante della sua brigata partigiana, un uomo ridotto allo spettro di se stesso, malato di un tumore incurabile allo stomaco. La memoria viaggia a ritroso e la voce narrante (molto autobiografica) ripercorre la stagione della liberazione, i miti sfioriti, le violenze fasciste, le disillusioni. Un romanzo che senza retorica e senza nessuna volontà revisionistica parla della guerra partigiana e del suo lato umano, della musica jazz che significa libertà, di un’amicizia e un’ammirazione che vanno oltre la vita. La prosa di Giuseppe D’Agata è poetica e curata ma non per questo incomprensibile o volutamente astrusa, lui che è davvero un grande scrittore si sforza di essere comprensibile e non fa mai inutile sfoggio di erudizione. Non è compito dello scrittore far vedere come sa usare bene parole desuete, lo scrittore deve raccontare una storia e trasmettere emozioni. I ragazzi del coprifuoco dovrebbe essere letto nelle scuole superiori come una storia vera che racconta le emozioni di un gruppo di uomini che ha lottato per la libertà.
Gordiano Lupi, www.progettobabele.it