L'esercito di ScipioneI Così andarono le cose a Treviso, o meglio, in quella zona militare, un poco più a nord della città stessa. L'8 settembre 1943, il giorno dell'armistizio, lassù era dislocata una divisione di fanteria italiana rafforzata da numerosi mezzi corazzati. Il generale Pivano e il generale Broggi, comandanti, alla notizia dell'armistizio, per prima cosa avevano dato l'ordine di mantenere la calma e la disciplina. I tedeschi incominciarono subito a darsi da fare ovunque, a disarmare e catturare soldati italiani, un po' di sorpresa, molto per paura o addirittura per volontà dei capi del nostro esercito. Si diedero da fare soprattutto a sostituire i nostri nelle posizioni che avevano tenuto fino al giorno prima di fronte agli inglesi e agli americani. Abbastanza facile e rapida riuscì questa operazione poiché gli alleati non mostravano troppa fretta di avanzare, come invece desideravano le popolazioni per uscire finalmente dalla guerra. Mentire accadevamo questi fatti, Pivano e Broggi avevano saputo mantenere in ordine i loro reparti. I tedeschi furono costretti allora a pensare anche a quella massa di soldati, massa compatta e bene armata. E qui non era come in tanti altri luoghi, specie dell'alta Italia, dove i tedeschi, oltre ad essere favoriti dalle ragioni che abbiamo detto prima, erano superiori di forze ai nostri: qui poteva esserci del duro di faccia. Perciò il 9 e il 10 tentarono la via delle trattative, promettendo per la resa: incolumità, onore delle armi, ritorno tranquillo alle case. Pivano, vecchio militare, e non del tutto segretamente antitedesco (dopo il 25 luglio questo sentimento s'era fatto sempre più manifesto), rimase freddo insieme al suo fedele seguito; era uomo di fascino e di prestigio fra gli ufficiali di carriera, e brav'uomo per i soldati. Fece un breve discorso alla truppa, pesò le offerte dei tedeschi confrontandole con quanto si sapeva di ciò che stava accadendo al nostro esercito – si diceva di oltraggi, di sterminio, di deportazioni in massa – e in una atmosfera di plebiscito, assolutamente nuova e straordinaria rispetto alla rigida disciplina militare e a vent'anni appena finiti di dittatura, il nostro generale chiese ed ottenne dagli uomini la fiducia. Broggi intanto cominciò a tentennare, e infine – la pelle soprattutto – cedette. Scappò. Insieme ad altri ufficiali si consegnò ai tedeschi. Pivano attese qualche ordine da Roma, dall'alto, ma niente venne se non voci di fuga, tradimento, disperazione, vergogna. Allora, l’11 all’alba, nuovo discorso: e questo discorso fatto da Pivano, un discorso carico d'odio antitedesco, ed esso solo, valse per i soldati più dei mille sermoni a favore dei tedeschi uditi durante tutto il precedente tempo della guerra. Nel silenzio di migliaia di respiri trattenuti, Pivano disse che se l'esercito cedeva i tedeschi avrebbero fatto passare un brutto quarto d'ora all'Italia e agli italiani, civili e soldati, grandi e piccoli, nessuno escluso. Si sentivano traditi, i tedeschi, e perciò da essi c'era da aspettarsi di tutto, anche che ammazzassero tutti gli italiani, uno per uno. E nelle due ultime guerre s'erano fatti conoscere abbastanza per la loro ferocia. Alle 6 e 25 Pivano ordinò il combattimento. Vi furono successi, in principio: i tedeschi non erano poi tanto leoni, il morale fra i nostri era alto, mai avevano combattuto con tanto impegno; i vecchi dicevano che era un nuovo '15-'18. Pivano era un grande generale. Viva l'Italia, abbasso e a casa loro i tedeschi. Ma non poté durare a lungo, purtroppo. Durò fino al 14 settembre. Dalla Lombardia, e soprattutto dal nord e dall'Austria, vennero nuove forze per i tedeschi, vennero mostruosi carri armati da "trentacinque", munizioni, viveri, aerei, e l'esultanza di essere quasi ovunque oramai padroni della situazione. Così morirono tanti nostri, anche Pivano, sorpreso da un «Messerschmidt». E allora fu la fine, non la resa, ma lo sbandamento, fra il fumo denso e gli scoppi e l'avanzare cauto e inesorabile dei tedeschi. Molti drappi bianchi si levarono mentre le mitragliatrici si esercitavano al tiro a segno su una massa di soldati inermi, una mandria condotta a caso qua e là dai carri armati che come feroci cani correvano intorno. Un mucchio di prigionieri vi fu, gente che dovette ricevere in faccia gli sputi dei vincitori. Per alcune ore rimase aperto un varco nella sacca tedesca, presso un villaggio dov'era stata fino alla fine la sede del comando e l'autoparco. Gli sbandati di uno degli ultimi battaglioni di linea raggiunsero le case diroccate di quel villaggio mentre già intorno comparivano i carri tedeschi: questi si scorgevano in fondo alla pianura nei momenti in cui il fumo si dissipava un poco. Sparavano incessantemente coi loro lunghi e sottili cannoni, e le granate mordevano la terra, finivano di sbrecciare sempre più le case. Il terreno era cosparso di corpi inerti, di camion rovesciati, incendiati dagli aerei. Gli sbandati, quasi tutti senza armi, senza elmi, senza pesi inutili, corsero fra le case del villaggio, scavalcarono macerie, attraversarono cortili, alla ricerca di qualche automezzo, anche se era assurdo che potessero esservi dei camion ad aspettarli: trovarono invece una ventina di feriti, uno accanto all'altro, addossati a un muro; il fiato grosso impediva di parlare, e i nuovi venuti disperati fissarono i rottami di quattro o cinque automezzi che formavano un unico groviglio nello spiazzo dell'autoparco segnato in tutti i sensi dalle dentature delle gomme. Più in là stavano immobili due carri armati sfondati, e dalla torretta scoperta di uno di essi sporgeva una gamba chiusa in uno stivale. «E i camion? » gridò una voce altissima, strozzata. Uno dei feriti, sollevando il capo che aveva fasciato come una mummia, disse: «Già se ne sono andati» e fece un gesto con la mano mentre nuovamente chinava il capo. All'angolo di una casa dove cominciava un viottolo, un camion era rovesciato su un fianco e dei corpi giacevano lì intorno. Alcuni sbandati si avvicinarono, si curvarono su quei corpi. Erano una decina, ed erano tutti ufficiali: qualcuno era morto, altri invece respiravano, gemevano, cercavano di muoversi. Dentro la cabina, schiacciato contro il volante, era un capitano. I soldati esaminarono quei corpi, senza dire una parola, poi uno raccolse una rivoltella, si avvicinò ai feriti e prese ad ucciderli uno a uno con un colpo alla testa. Arrivavano granate intanto, ma nessuno pareva avvedersene intento solo ad osservare il soldato che con cura uccideva gli ufficiali feriti. Poi il soldato dalla testa fasciata disse: «Carogne, a noi ci hanno piantato qui» e la tensione si sciolse, ognuno tornò a pensare alla pelle, alle granate dei carri armati. Vene [sic] scoperta una mitragliatrice, abbandonata dentro una casa diroccata: la canna sporgeva da una finestra a piano terreno, e intorno all'arma erano ammassati sacchetti di sabbia. Qualcuno propose di adoperarla, ma venne cacciato via a spinte e urla, e l'arma rovesciata nella strada. Altri recarono un telo bianco strappato e chiazzato di fango, e decine di mani si sforzarono di tenderlo in alto, alla vista dei carri armati. Questi si vedevano grandi ormai; in uno – il più vicino – si distingueva chiaramente dipinta sulla torretta la croce nera tedesca. La maggior parte dei soldati s'era ammassata a formare il gruppo che agitava il telo bianco, e c'era invece chi si muoveva continuamente, incerto fra un riparo e un altro migliore, fra la resa o la fuga. «Quelli non fanno prigionieri». «Fermi, per carità, e alzate bene le braccia». I carri armati avanzavano adagio, e sparavano meno ora. Il sole era coperto e s'indovinava basso dalla parte dell'orizzonte ove salivano al cielo numerose colonne di fumo nero. Cesare distolse gli occhi dai carri armati e si volse a Capellupo che gli stava al fianco. La faccia di Capellupo era a strisce, bianche dove era colato il sudore. Capellupo guardò anch'egli il compagno. «lo qui non ci resto» mormorò Cesare. Capellupo deglutì saliva calda e apri la bocca, gli pareva di non essere più capace di parlare. «E allora?» domandò. Cesare non rispose, tornò a fissare i carri armati. Questi avevano smesso di sparare e venivano avanti muovendo il cannone come una minacciosa antenna. Capellupo toccò una spalla a Toto intento anche lui, col naso su un pilastro di cemento, a guardare i tedeschi. Teneva gli occhi sbarrati e stringeva i denti; batté le palpebre più volte quando si sentì toccare con insistenza la spalla. «Allora, tu, che facciamo?» gli chiese Capellupo. Toto strinse ancor più i denti, senza parlare; parlò invece Cesare, mentre rapidamente si toglieva la giubba. «lo me ne vado. Cosa stiamo a fare qui? Può darsi che più in là sia ancora aperto». Meccanicamente anche Toto cominciò a sbottonarsi la giubba, e intanto annuiva. Cesare diede una gomitata a Capellupo. «Dài, spicciati». «Potevamo deciderci prima». «Si fa ancora a tempo». Si sentivano soltanto spari lontani, e il battere sordo dei motori dei carri armati. Il gruppo dei soldati raccolti attorno al drappo bianco se ne stava immobile; quasi tutti tenevano le braccia alzate, anche chi non poteva esser veduto dai carristi tedeschi. Qualcuno pregava, altri contavano il tempo, un tempo scandito dai rumori delle esplosioni. Cesare scantonò da muro a muro, fra i cumuli delle macerie, seguito da Capellupo e da Toto; attraversarono il villaggio, poi fecero di corsa un lungo tratto scoperto guardandosi intorno: ma i carri armati non erano ancora arrivati. Ripresero fiato presso un gruppo di case abbandonate dove trovarono sparpagliate un poco ovunque una quantità di uniformi. Capellupo raccolse una giacca che portava alle maniche i gradi di colonnello, la mostrò ai compagni. «Toto, la vuoi?». Questi sputò con disgusto, e Cesare disse: «Certo, se restavamo uniti potevamo anche sfondare». «Morto Pivano, finito rotto» disse Capellupo. «Sono stati i primi a scappare i superiori» disse Toto. «Sei siciliano tu?» gli domandò Cesare. Toto fece cenno di sì. «Si sente dalla "erre"» disse Cesare. Si incamminarono nuovamente; le facce sporche, le bocche tirate, e gli occhi spiritati, attenti ad ogni segno di movimento intorno. Di sera raggiunsero Treviso, la oltrepassarono girando per la periferia sulle strade ch'erano dei fossati, fra porte e finestre sprangate. C'erano altri soldati sbandati, tutti a piedi, e si capiva che ognuno andava per conto proprio, preferiva battere una strada propria, per confondersi, per essere meno notato. Non si sapeva di preciso dove fossero già i tedeschi, ad ogni angolo di strada poteva spuntare d'improvviso il cannone di un carro armato. A levante stavano ancora combattendo, si sentiva rumore di artiglieria; più vicine si distinguevano lunghe raffiche di mitragliatrice. Chi resisteva ancora? Oppure erano i tedeschi che fucilavano i prigionieri? Gli sbandati camminavano svelti, parevano ombre scure sul grigio della strada, andavano a piedi guardinghi, appena potevano lasciavano la strada per inoltrarsi nei campi, meglio quei campi che non erano attraversati dai fili del telegrafo. E anche dalla ferrovia si tenevano lontano, e procedevano con l'orecchio teso, con gli occhi fissi sul nero della terra, attenti a non calpestare la carne dei morti. Ogni tanto arrivavano delle brevi salve di granate, e gli sbandati si buttavano a terra, poi con soddisfazione ascoltavano i fischi rabbiosi seguiti dalle esplosioni: voleva dire che i tedeschi non erano ancora arrivati. E la notte certamente avrebbe rallentato la loro avanzata. Cesare, Capellupo e Toto camminavano svelti uno dietro l'altro; tacitamente Cesare, che era settentrionale, aveva preso la guida: la direzione era il sud, e l'essenziale era rimanere liberi, arrivare dove esistevano ancora dei civili, anche se era facile intuire che oramai i tedeschi dovevano essersi impadroniti di tutta l'Italia; ma poi si sarebbe visto. «Se posso arrivare a Bologna...» diceva Cesare ogni tanto. L'idea di poter arrivare alla sua città gli suscitava brividi d'impazienza, e un sorriso caparbio allora si schiudeva appena nel suo viso sporco e tirato. «Sono sicuro che ci arriveremo». «Per voi dell'alta Italia conviene» osservò Capellupo dopo averci pensato sopra a lungo, «ma noi, fra noi e le nostre case c'è il fronte nel mezzo». «Cosa vuol dire?» fece Cesare «intanto vi mettete al sicuro. Se possiamo arrivare a Bologna vi metto a posto io. È una città grande, è facile trovare da nascondersi». Capellupo e Toto non risposero: ma era giusto quello che diceva Cesare. «E poi» riprese questi «chi sa dov'è il fronte. Con questo casino può anche venir su in pochi giorni. Può darsi che arrivi subito anche in alta Italia, casi è finito tutto». «Speriamo » disse Capellupo. Dopo un poco Toto disse: «Per i bolognesi fa niente che noi siamo meridionali?». Cesare si voltò stupito: «Ma cosa dici? Ma da dove vieni?». Subito Capellupo s'intromise: «Toto litigava spesso con quelli dell’alta Italia. A voi piace sfottere la gente, specialmente noi meridionali, e siete tutti per voi. Non tu, si vede che tu sei una brava persona». Cesare scuoteva il capo, allargava le braccia, ostentava la più viva meraviglia. «A Bologna si son sempre trovati bene tutti» disse con forza. «Che razza di teste!» soggiunse, come fra sé, ma ad alta voce. Gli altri non replicarono, anche perché si fecero attenti a una improvvisa serie di esplosioni che crebbero sul brontolio a levante e che ben presto però cessarono. Treviso era oramai oltrepassata, ma fu allora, poco prima di lasciare le ultime borgate, che videro un ufficiale ancora in divisa, seduto sui gradini di una casa devastata. Teneva il capo chino, chiuso fra le mani, e stava immobile coi suoi galloni dorati di maggiore bene in vista nell'ultima luce non ancora soffocata dalla sera. Accanto, ma più in basso, seduto in terra, era un soldato, intento a pulirsi la faccia con uno straccio. Capellupo lo riconobbe e lo chiamò: «MilIeto!» e il soldato fece un gesto con la mano, un cenno ai tre perché si avvicinassero. «Milleto, che fai?» gli domandò Capellupo. «Zitti, dorme» disse Milleto piano indicando il maggiore. «Sono tre giorni che non dormiva, poveretto». I tre osservarono l'ufficiale. Lo ricordarono per averlo notato fra i più vicini al generale Pivano quando questi aveva fatto i suoi due dIscorsi-plebiscito ai soldati. «Riposi in pace» commentò Cesare. Ma Milleto lo guardò male, e disse: «Quello è a posto. Lui non è scappato come gli altri». Tutti tornarono a guardare il maggiore che dormiva, poi Capellupo si volse nuovamente a Milleto. «Tu fai la guardia?». Milleto non rispose subito, una vampata lontana gli illuminò per un attimo il viso lungo, poi come facendo uno sforzo parlò: «Stavo seduto qui per riposarmi, ed è arrivato lui, e anche lui si è seduto. Ha detto: che disastro, poi mi ha domandato il nome, mi ha domandato di dove ero, e ha detto che è siciliano anche lui...». «Toto è pure siciliano» interruppe Capellupo. «Non vi conoscete?». Toto fece segno di no, poi venne avanti e in silenzio strinse la mano a Milleto. «lo sono di Caltanissetta» disse questi. «Modicano, io» disse Toto. Milleto riprese il discorso di prima: «Ha detto che erano tre giorni che non poteva dormire, e si è addormentato». Quando tornò il silenzio, Cesare toccò un braccio a Capellupo, e questi disse: «Milleto, noi ce ne andiamo, vediamo se possiamo arrivare a Bologna. Questo compagno nostro è di Bologna» Milleto considerò Cesare, annui, poi tornò a guardare Capellupo. «Vieni anche tu» disse Capellupo. Milleto parve riflettere. «E lui?» domandò indicando il maggiore. Lui si arrangerà, come noi, pensò Cesare, ma non lo disse. Desiderava soltanto rimettersi a camminare, subito. E non da sola, carne avrebbe potuto, ma insieme a Capellupo e a Toto: si era già abituato all'idea di avere come compagni di fuga quei due meridionali. Per questo frenava la sua impazienza. Milleto aveva accanto a sé una zaino gonfio, vi batté sopra con la mano, e soltanto allora gli altri lo notarono. «Anch'io avevo deciso di andarmene giù, ma poi, poi...». Avrebbe voluto dire che l'incontro col maggiore l'aveva fatto rimanere lì, chi sa perché, fermo come un cane fedele, ma non finì: tanto, gli altri già l'avevano capito. «Portiamoci pure il maggiore» disse Toto, «per me è la stessa cosa». «Anche per me » fece Capellupo. Cesare alzò le spalle: «Basta che ci sbrighiamo» disse. Milleto parve contento, e mentre cercava di convincersi che era bene destare il maggiore, questi mosse un braccio ed emise un sospiro. Aveva aperto gli occhi nel cavo delle mani e subito era tornato alla realtà: sospirava, sbigottito ancora sulla sua carriera improvvisamente spezzata proprio quando aveva cominciato a credere in una causa degna; sospirava se spararsi un colpo in testa o lasciarsi catturare e quasi certamente fucilare dai tedeschi che quella resistenza dovevano essersela legata al dito. O mettersi piuttosto salvo da qualche parte, nascondersi, aspettare la fine della guerra. Sollevò il capo e vide Milleto e gli altri. Capellupo istintivamente si mise sull'attenti, un attenti mitigato subito dalla riflessione, gli altri rimasero così, fermi come si trovavano, Milleto si alzò in piedi. «Amici» disse il maggiore guardando meglio quegli uomini, e non seppe cos'altro dire. Milleto gli fece il saluto militare, imitato dagli altri, e il maggiore ripeté: «Amici». Suonava bene questa parola detta da un superiore, da un padreterno, da uno ch' era stato lassù, in alto, fianco a fianco al generale Pivano. Le raffiche delle mitragliatrici si sentivano più vive, più vicine. Il maggiore si levò in piedi adagio, era un uomo di corporatura robusta, non grasso tuttavia. «Cosa fate qui? Aspettate i tedeschi?». «Signor maggiore, non vogliamo farci prendere» disse Capellupo. Poi, dopo una pausa. «Non volete venire con noi?». Il maggiore rimase fermo a guardarsi le scarpe «Poveri ragazzi» disse. Faceva effetto: un po' meno su Cesare, un poco più su Milleto, tuttavia su tutti e quattro. Stringeva il cuore. Seguitavano gli scoppi, il fumo anneriva ogni cosa, facce, muri e cumuli di macerie, rendeva più buia la sera. Amici. L'aria spessa, gonfia di polvere e di lacrime, l'aria degli ultimi cinque o sei giorni, era pure un'aria nuova ch'era penetrata nelle file del nostro esercito. Peccato quasi che oramai tutto fosse finito. Ma pure, nel breve giro di pochi giorni cose straordinarie erano accadute. Il plebiscito, il sì immenso a Pivano, la lotta accanita, fiera, per la prima volta sentita viva, con rabbia, con odio ed ora questo "amici" detto sinceramente da un superiore. E se gli ufficiali si erano dimostrati dei vigliacchi dopo la morte di Pivano, anche questo faceva parte ,dell'aria nuova, anche questo, sia pure come vergogna, era servito a qualcosa. Gli uomini rimasero un poco immobili, senza parlare, a mordersi le labbra, mentre il maggiore li osservava, guardava i residui stracci della divisa di quegli uomini neri. A gruppi o isolati continuava il passaggio dei soldati sbandati. Camminavano apparentemente indifferenti a quanto accadeva intorno, muti, strascicando gli scarponi, senza fasce, senza giubba, alcuni con un fardello di cibo, tutti senza peso di armi; passò un piccolo asino su cui stava a cavalcioni un uomo col capo reclinato sul petto: un piede dell'uomo penzolava, nudo e nero, sfiorando la terra: l'asino avanzava adagio, senza guida, seguiva la strada comune delle ombre che si vedeva davanti. Il maggiore si scosse: «Speriamo di farcela» disse. E parve aver riacquistato un poco di fierezza nel precedere i quattro uomini, l'esercito che gli era rimasto. Dopo pochi passi Cesare gli fu al fianco e gli disse, con rispetto, che avrebbe fatto bene a levarsi la giubba: naturalmente per non dare troppo nell'occhio, spiegò. Il maggiore non rispose ma si tolse la sua vistosa giubba e la lasciò cadere con indifferenza nella cunetta della strada. Milleto camminava di buon passo, pur col peso dello zaino. «Si vede che eri in fureria» gli fece Capellupo; Milleto rispose che senza mangiare non si poteva camminare. Capellupo portava un tascapane con dentro una pagnotta e una piccola forma di cacio calabrese, piccante, che aveva tenuto da parte per farlo meglio stagionare. Era venuto il momento di sacrificare quel cacio, anche se era un peccato, per un contadino come Capellupo, non poterlo gustare secco a dovere. Procedettero in silenzio per buona parte della notte. Ad un certo punto il maggiore decise che avrebbe dovuto cambiare strada; secondo lui – e gli altri lo ascoltarono senza discutere – i tedeschi dovevano avere già bloccato la strada che stavano percorrendo. Così si inoltrarono nei campi, e a poco a poco si trovarono soli, nel buio, mentre le esplosioni, lontane, illuminavano fugacemente le loro spalle. Il maggiore ostentava un fare sicuro che comunicava calma negli altri. Ogni tanto si fermava, al limite di un campo, su una cavedagna, e ascoltava i rumori della notte. Agli uomini pareva curioso sentir cantare i grilli, ma faceva piacere ascoltare quel canto. Verso l'alba trovarono un vecchio che stava su uno sdraio sgangherato davanti alla porta di un casolare buio. Il vecchio spiegò che era costretto a dormire cosi perché gli faceva bene per l'asma, e finalmente disse che non aveva visto tedeschi da quelle parti, ma che erano stati visti sulla "nazionale". La "nazionale" era un cinque o sei chilometri a est, ricapitolò il maggiore: dunque aveva calcolato bene. l quattro compagni pensarono che in qualche modo era utile poter disporre di un ufficiale, di un bravo ufficiale, naturalmente. Il sole poi illuminò la pianura, una infinita distesa di chiazze verdi e brune, lasciando una linea scura all'orizzonte. Là era il "sud", la direzione da tenere. Il pianto di un bimbo, il nitrito di un cavallo, durarono a lungo nelle orecchie dei cinque uomini. Decisero di fermarsi per mangiare qualcosa: si sentivano più calmi, più distesi. Intorno, a vista d'occhio, non c'erano più cadaveri, né cannoni, né carri armati!; più niente di tutto il verde della vita militare, ma soltanto quel poco di verde caldo della campagna di fine estate. Più tardi passò una squadriglia di aerei, bassa, senza: obbiettivi da colpire, con un incedere di vittoria. «Ne avranno ancora per poco, vedrete» disse il maggiore. «Se soltanto ci fosse stata più organizzazione» soggiunse seguendo con gli occhi gli aerei, oramai puntiformi. «Noi però glie l'abbiamo fatta ai tedeschi» disse Cesare. «Speriamo» fece Capellupo. Toto si strinse un dito fra i denti, in segno di odio e di dispetto. Il maggiore lo guardò. «Di che classe sei? ». «Del 'diciannove» rispose serio Toto. «È il più giovane tra noi» disse Capellupo. Lui e Cesare erano del 'tredici, e Milleto il più anziano, del 'dieci. Toto pareva davvero un ragazzo rispetto agli altri, anche se lo sporco mascherava i lineamenti a tutti; portava un paio di baffetti sottili, e le basette lunghe e gli occhi neri e sempre inquieti gli davano un'aria aggressiva e decisa che contrastava con la sua piccola statura. «Il più giovane, però graduato» disse Cesare. Infatti Toto era caporale. «Non lo sfottere, Ce'» raccomandò Capellupo. Cesare sorrise aperto, e Toto alzò una spalla e ricambiò il sorriso. Intanto avevano ripreso a camminare. Milleto, che si rivelava piuttosto taciturno, preferiva stare per ultimo; davanti a tutti, leggermente discosto dagli altri, procedeva il maggiore. Quando poteva, senza parere osservava di sottecchi gli uomini, li studiava. Non era possibile annullare la distanza che era fra essi e lui: poteva essersi attenuata, sì, ma tacitamente rimaneva, ed era accettata, naturale anzi che vi fosse, tanto oramai doveva costar poco, non era più come quella di prima. Del resto un ulteriore rialzo di prestigio egli lo ebbe agli occhi dei compagni in quella stessa mattinata, quando riuscì a farsi dare da certi contadini che non dovevano passarsela male qualche capo di vestiario borghese per sé e per i suoi: un paio di calzoni a uno, una giacchetta a un altro. I contadini erano apparsi poco entusiasti dapprima, dicendo che non avevano più niente, che già avevano dato tutto ad altri, allora era intervenuto il maggiore qualificando il suo grado, e il capo famiglia, chi sa se più impietosito che intimorito o stupito, aveva pregato la donna più anziana della casa, la vera capo famiglia, di dare qualcosa a quella gente; la donna, dopo una guardata agli occhi severi, ai baffi scuri e folti del maggiore, alla sua grossa eretta corporatura, aveva acconsentito. Così gli ex soldati avevano compiuto il primo modesto passo per rientrare nel mondo, nella vita dei civili. (pp. 7-20) |
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