Il ritorno dei Templari

Capitolo primo

«...Cristo, agnello di Dio, sacrificato per il bene del mondo, abbi pietà di me. Agnello di Dio, che hai salvato tutti coloro che credono, dammi la pace perpetua nella vita e nella morte. Così sia».

Terminata l'orazione che papa Leone III, nel suo Enchiridion, il libro delle preghiere salvifiche, aveva dedicato alla domenica, Giacomo si fece il segno della croce e si rialzò lanciando un ultimo sguardo alla preziosa immagine della madonna, davanti alla quale aveva preso l'abitudine di pregare. Era una piccola e autentica opera bizantina, che teneva appesa nella camera da letto. E ce n'erano tanti, di quadri, nel ricco e austero appartamento dove abitava.

Era domenica, ed era anche il primo giorno del 1989, un anno che – per lo meno secondo padre Belisario – si annunciava memorabile, gravido di prodigi sconvolgenti.

Ma per Giacomo Ricci – un giovane alto e magro, con un viso pressoché imberbe nel quale spiccavano, come scolpiti a spigoli, dei lineamenti che esprimevano fierezza e determinazione – quel primo dell'anno era un giorno come un altro. I suoi ventidue anni, nutriti di idee assolute e radicali, lo portavano a vivere differenziandosi dalle persone comuni,

tanto per cominciare eliminando il più possibile l'assillo del calendario.

Non aveva dubbi sulla propria superiorità, e la esprimeva anche nell'aspetto esteriore. Infatti si distingueva nettamente dai coetanei perché portava il cappello e, indifferente alle stagioni, vestiva con sobria ricercatezza, ammiccando vagamente alla moda degli anni Trenta.

Si avvicinò ad una finestra che si affacciava sulla piazzetta e sulla antichissima basilica di Santo Stefano. In giro non c'era quasi nessuno: segno che la smania contagiosa di festeggiare l'inizio del nuovo anno facendo tardi ad ogni costo, era stata come sempre esaudita.

La luce del sole ce la faceva appena a scrudire la mattinata invernale, perciò i pochi passanti preferivano camminare all'aperto anziché nel buio dei portici.

Quella notte anche Giacomo, in una casa privata, aveva partecipato ai festeggiamenti. Ma in una posizione passiva, sempre a debita distanza dai punti focali dell'effervescenza che aveva invaso i saloni del piano nobile di palazzo Ghiberti.

La contessina Bella Ghiberti – rampolla di antica nobiltà toscana – aveva organizzato tutto. Bene quanto a cibarie e rinfreschi, meno bene quanto a ospiti. Agli occhi irridenti di Giacomo il livello degli invitati – i giovani delle migliori famiglie bolognesi – era assolutamente mediocre. Le ragazze poi, tutte acconciate e truccate allo stesso modo, le trovava del tutto prive di fantasia e di stile.

Spostandosi senza abbandonare la coppa di champagne che si passava da una mano all'altra, il giovane si domandava se i suoi giudizi non fossero troppo sommari. Comunque erano senz'altro impietosi, e su questo non aveva dubbi o pentimenti. Era ben deciso a non dare spazio alle indulgenze, alle giustificazioni, agli accomodamenti e ai compromessi e ce l'aveva con le buone maniere, con l'ipocrisia che nascondeva gelosie, invidie, egoismi, rivalità.

Contro tutto ciò invocava dovere e rigore, il binomio che per lui era diventato una ossessiva giaculatoria. Il dovere del rigore contro la facile elargizione di patenti di onestà e buona fede, e perfino di intelligenza – una merce che egli considerava rarissima.

«Ciao, Rigore», disse qualcuno che gli stava vicino.

Giacomo, che aveva riconosciuto la voce, si voltò cercando di trasformare la piega sprezzante delle labbra in un sorriso cordiale.

«Ciao, Airam. Ti immaginavo beato nella solitudine della tua camera d'affitto. Invece anche tu sei finito qui».

«Sapevo che ti avrei trovato».

In segno di affetto si toccarono reciprocamente un braccio all'altezza della spalla.

Airam Vincipane era un coetaneo di Giacomo e bastava uno sguardo per capire che i due giovani erano fatti della stessa pasta. Con una principale differenza esteriore: i capelli. Chiari e lisci quelli di Giacomo, neri e ricciuti quelli di Airam.

Per alcuni istanti i due si guardarono e si isolarono completamente dalla festa; infine Airam disse: «Ti ho spiato a lungo mentre osservavi gli altri».

«Davvero?»

«Sì, Rigore».

«Smettila di chiamarmi così». Nelle parole del giovane non c'era rimprovero, né fastidio: caso mai una sfumatura di compiacimento.

«Come vuoi, Giacomo Ricci. Ciò non toglie che se il tuo sguardo fosse un raggio termico, intorno a noi avremmo una ecatombe di corpi carbonizzati».

Risero.

«Il tuo non è odio, un sentimento che non potrei condividere», continuò Airam. «Il tuo è disprezzo, lucido disprezzo. È questa una delle tue capacità che più invidio».

«Ma ce l'hai anche tu».

«lo sono ancora un principiante».

«Se ti applichi, imparerai alla svelta. La stoffa non ti manca». Airam scosse il capo e rivolse all'amico un'occhiata penetrante. «Eletti non si diventa».

Giacomo cambiò tono: «Avanti, signor Vincipane, mi dica come fa a schivare le continue imboscate della mediocrità».

L'altro assunse l'aria di uno scolaro che richiama alla mente una lezione. «Nella vita pratica, nella realtà di tutti i giorni, con pochi accorgimenti posso chiamarmi fuori e salvarmi».

Giacomo volle proseguire il gioco: «Ebbene, che cosa aspetta, signor Vincipane? Ha esattamente sessanta secondi. Ogni secondo in più le sarà computato come negativo e peserà sul voto finale».

«È presto detto. Mi basta evitare, cambiare discorso e meglio ancora strada, ossia svicolare, non salutare e non rispondere simulando concentrazione o sbadataggine, fingere di ascoltare e addirittura promettere senza neppure sapere cosa, mentre il mio pensiero è rivolto altrove, indirizzato verso atmosfere rarefatte e pure». Il finto scolaro tirò il fiato. «Ho imparato bene la sua lezione, professore? Credo di meritare la lode e anche il cioccolatino accademico».

Giacomo sorrise, ma l'espressione di Airam mutò repentinamente e si fece seria. Il giovane si voltò verso il salone, dove con l'avvicinarsi della mezzanotte l'allegria stava crescendo, e senza vedere nessuno continuò, staccando lentamente le parole: «E proprio in virtù di ciò che ho detto, assumo l'impegno solenne di battermi con tutte le mie forze perché l'ordine che discende dalla qualità prevalga sull'approssimazione e quindi sull'ingiustizia. Lotterò perché la gerarchia dei meriti ripristini l'onesta e feconda disuguaglianza fra chi sa e chi non sa e fra chi è e chi non è».

Una stretta al braccio parve riportare Airam alla realtà. Giacomo lo fissava con estrema attenzione. Airam incalzò: «Sono i tuoi pensieri, no? Ammettilo, Rigore, dimmi che li ho saputi leggere nella tua mente».

Giacomo si allontanò e tornò quasi subito con una bottiglia di champagne ancora tappata.

«Vieni. Andiamocene».

«Non vuoi aspettare la mezzanotte? Manca poco». «Brinderemo tu ed io, fuori di qui».

L'altro indicò un gruppo di giovani e in particolare una bella ragazza. «E Anna, che cosa fai, la lasci sola?».

Gli occhi di Giacomo brillarono divertiti. «Ti sembra che qui sia sola? O preferisci rimanere tu a tenerle compagnia?».

I due amici sorrisero. Per qualche istante nei loro pensieri ritornarono le immagini di un curioso episodio che li aveva coinvolti e li aveva messi l'uno contro l'altro, proprio a causa di Anna. Un episodio vicino nel tempo, ma oramai remoto nelle loro coscienze.

Giacomo posò la bottiglia in un angolo dove nessuno potesse farla cadere. «All'eletta compagnia dobbiamo almeno un saluto... concreto».

Un lampo di intesa brillò negli occhi neri di Airam. «Una festa così bella merita un sentito ringraziamento».

«Le brutte cose dell'anno vecchio vanno distrutte», gli fece eco Giacomo. «Porta bene. Chi sa se questi babbei lo sanno».

E subito, senza gesti scomposti ma con freddezza e con cura, con metodo che pareva collaudato, si misero a rovesciare sedie e bicchieri e vassoi, insomma tutto ciò che arrivava alla portata delle loro mani.

Davanti ai sorrisi dei due giovani, spudoratamente esibiti, sprezzanti e insieme amabili, nessuno se la sentì di reagire, nessuno si fece avanti per fermarli. Solo Anna mosse qualche passo, ma desistette e crollò lentamente il capo: quei due non finivano di stupirla e sotto sotto non riusciva a biasimare le loro stranezze.

Di colpo si acquietarono, dimostrando di non essere affatto ubriachi. Recuperarono la bottiglia, ringraziarono con dei compiti inchini, come degli attori al termine di una recita, e lasciarono palazzo Ghiberti.

Poco dopo, quando nelle case e nelle strade esplosero i mortaretti e le urla augurali per l'anno nuovo, i due amici, appoggiati alla colonna di un portico, stapparono la bottiglia e la vuotarono a lunghe sorsate. Quindi presero a camminare per le vie del centro. La notte non era gelida e comunque le correnti fredde che si facevano sentire agli incroci non modificavano la loro tranquilla andatura.

Si misero a parlare degli studi – entrambi erano laureandi in Lettere – e dei piani che avevano deciso di seguire per affrontare, a giugno, gli ultimi esami. I piani differivano, e il fervore della discussione produsse il solo risultato di divaricarli ancora di più: e così, vittime della loro orgogliosa cocciutaggine, i due giovani dovettero ammettere l'impossibilità di studiare insieme, come in realtà avrebbero voluto.

Si erano addentrati in un dedalo di viuzze e vicoli nei pressi delle Due Torri, quando Giacomo si fermò nel bel mezzo di via dei Giudei.

«Ecco, Vincipane, qui puoi comprendere quanto è difficile interpretare la volontà di Dio». Airam si guardò intorno e non vide che case e casupole fatiscenti.

«Tu sei ancora forestiero in questa città», continuò Giacomo, «e forse non sai che proprio qui una volta c'era il ghetto».

«Vuoi dire il ghetto ebraico?». Giacomo annuì. «Poca cosa, rispetto alle capitali dove è approdata la diaspora. Eppure esisteva perfino nella civilissima Bologna, la culla del diritto e della tolleranza». Si mise a ridere. «Già: qui c'erano anche tante case di tolleranza».

«Va bene, ma non capisco che cosa c'entri la volontà di Dio».

«C'entra eccome, se mi stai devotamente a sentire».

«Parla, Rigore. Le tue parole sono come il Cantico dei Cantici per le mie orecchie».

Per nulla toccato dall'ironia dell'amico, Giacomo spiegò: «Tante volte, passando per queste strade, mi sono chiesto se il Dio di Israele, costringendo il suo popolo nei ghetti, abbia voluto non già punirlo o umiliarlo ma assicurarsi la sua compattezza e coesione. Capisci? Il ghetto finiva col piegare tutti ad una stretta convivenza ed era una barriera contro la penetrazione dei gentili».

Airam aveva ascoltato con interesse. Infine disse: «Dunque nei disegni di Dio rientrano anche i campi di sterminio».

«È la funzione positiva del diavolo. Positiva suo malgrado. Se la fede non viene messa alla prova, come possiamo misurarla e testimoniarla?»

«Sta' a vedere che per rianimare la fede è bene chiedere aiuto proprio al diavolo».

«Padre Belisario è convinto che questo sarà l'anno del diavolo. Tu credi che esistano due legioni di diavoli, una occidentale e una orientale?». Giacomo non attese la risposta dell'amico. «Sembra che presto vi sarà una gigantesca liquidazione, la svendita di una grossa partita di anime dell'Est. Pur di far soldi, i diavoli orientali le cederanno a quelli occidentali ad un prezzo irrisorio».

Airam si mise a ridere: «Si vede che al cambio ufficiale...».

«Vuoi dire infernale...».

«Al cambio infernale sono svalutate».        

«Ma in assoluto, una per una, possono valere più delle nostre». E Giacomo chiuse l'argomento con un laconico: «Chi

lo sa. Staremo a vedere».

Airam ardeva dal desiderio di chiedere di padre Belisario e delle sue attività che coinvolgevano Giacomo, ma preferì trattenersi: pur nell'amicizia, la discrezione era pur sempre un valore.

I due giovani non volevano che quella notte finisse. Qualcosa di eccitante poteva ancora accadere, e che accadesse a loro era facile, normale quasi.

(pp. 11-17)

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