Il Circolo Otes

Feltrinelli, Milano, 1966, pp. 275

Questo libro, cioè questo bel libro, insomma questo libro vero, tormentato (tormentoso) e nuovo fino allo scrupolo, si articola (in movimento) sue due coordinate: una affidata alla macchina della memoria che recupera da un fondo abbastanza ingiallito di anni (dal tempo) strani secchi patetici oggetti (persone-volti in lacrime, sorrisi che sono ferite) i quali poi suonano e producono, con il risentimento del tempo incompiuto, del tempo ritardato, del tempo odio-amore, una specie di ossessiva nostalgia, un torpore dei sentimenti che è quasi simile a una apparente morte privata; l’altra, nel guizzo freddo della ragione che raduna, calcola assomma e deduce; che si sviluppa su un linguaggio “fortemente”  calcolato, double-face, in cui la inevitabile “improvvisazione” non prescinde mai dalla necessità, dal proposito di essere capito – e da una sorta di giuoco (molto acuto e colto, per la verità) che l’autore propone di continuo, come in una altalena, e che rappresenta il “movimento” (l’arpicordo della memoria e la realtà di una balera), l’ossessione dell’uomo-jazz, la struggente “resa dei conti” del quarantenne (l’autore). Un romanzo per tutti, dunque, nel senso che ogni lettore può usufruirle, rivoltarlo, aprirlo, discuterlo, intenderlo, rifiutarlo; ma anche un libro che si pone subito, con il rigore delle opere elaborate con cura, entro la querelle odierna intorno alle opere narrative, al romanzo; concorrendo, col supporto, della propria calcolata “genericità”, a contraddirla e a superarla, in qualche modo; offrendosi come un progetto di possibile lavoro futuro e insieme, con cauta malizia, anche come possibile risultato. Il ferro e il fuoco della situazione può consentire che, a un certo punto, la carta canti; cioè che i risultati non si facciano aspettare, come in questo caso. Una cultura scientifica, una forte esperienza umana, il gusto dell’aneddoto, la causticità sentimentale e il rigore dell’impegno politico, uniti ad una ironia che riesce spesso ad essere perfino malvagia, ma che tuttavia sempre divertita (e divertente), concorrono, in quest’opera, a un risultato di notevole impegno al livello della sperimentazione più raffinata.
(Roberto Roversi, dalla quarta di copertina)

[…] Tra questo [L’esercito di Scipione] e Il medico della mutua aveva cominciato a buttar già la prima stesura del Circolo Otes (che cambiò titolo parecchie volte): lo lesse Vittorini e lo lodò, pur suggerendo vari cambiamenti e rettifiche. Lo aveva soprattutto colpito, come scrisse all’autore, “il tentativo di volgarizzare, di spiegare al pubblico dei non addetti ai lavori come stanno andando le cose dell’arte e della letteratura”. Ma D’Agata era il primo a non esserne soddisfatto; l’idea continuò a ronzargli in testa per i quattro anni che seguirono, l’idea di un libro “praticamente senza tradizione da noi”, ma non un romanzo-saggio, anzi “dal punti di vista narrativo piuttosto omogeneo, fitto di legami interni e di richiami, di motivi che tornano continuamente, anche se all’apparenza costituito da singoli blocchi narrativi”. Il “congegno narrativo” (come alla fine l’autore ha preferito chiamarlo) è dunque andato proliferando per anni, e D’Agata ha finito per mettervi una gran parte di se stesso: lo spirito ironico, il gusto del paradosso brillante, un’ansia di ricerca che gli impedisce di star fermo al generico e al luogo comune, persino il suo vivace virtuosismo, scrittore com’è con molte corde al suo arco. E chi infatti se non un virtuoso (dote ormai rara in letteratura) avrebbe potuto sciorinare con tanta grazia un così ricco inventario di modi e di stili, un po’ sul serio e un po’ (estrema capriola) facendo il verso a tutti? L’ultima tessera del mosaico (il romanzo “collettivo”) è stata aggiunta di recente: e D’Agata vi ha messo un altro pezzetto di se stesso, il jazzista che fu a vent’anni (suonava la batteria); ma lo spirito del jazz si sente in tutto il libro.
(dalle pagine interne del libro)


Critica

[…] Ma torniamo agli anni cinquanta. Proprio in quel tempo, l'allora esordiente Giuseppe D'Agata scrive un racconto parzialmente autobiografico. Vi si narra della dolorosa maturazione di un giovane nella Bologna incupita della guerra, fra rastrellamenti, organizzazione della resistenza e passione crescente per la musica americana. Complesse vicende editoriali impedirono l'uscita di quelle pagine, confluite nel romanzo Il circolo Otes (1966) con il titolo di Bix e Bessie. Concepito nel clima letterario degli anni sessanta, Il circolo Otes si interroga sul senso dello scrivere sperimentando al proprio interno diverse possibilità espressive. Fra queste, una di esplicita ispirazione jazzistica, come si vede già nell'incipit di quel romanzo che è Bix e Bessie:

Quando c'è Bix da bere non manca dice il batterista mentre dalla bottiglia che è di whisky prendono un bicchierino a testa e sta arrivando tutta gente da grana come osserva il sax-clarinetto [...].

Ma circola nel testo qualcosa che oltrepassa la pure suggestione, e tende a colloquiare con lo spirito del jazz trasferendone sulla pagina la carica pedagogica, cioè a dire il potere liberatorio. Secondo Pietro Cazzani, l'autore riuscirebbe a "dar vita e suono, anche arduo e complesso, anche in apparente aritmicità e controcanto, a tutta una polemica sul come scrivere che dev'essere in subordine a quello che si scrive". Nel 1973 D'Agata riprende la prosa giovanile, la amplia, la pubblica in edizione autonoma ma con il titolo originale: La cornetta d'argento, mantenendo la struttura originaria ma precisandone la fisionomia di Bildungsroman. Dalla cantina isolata, dove i protagonisti consumano «ore e ore rubate alla guerra» suonando la musica dei negri, Mario uscirà infine all'aperto grazie a Bessie, la cui voce lo incanta e il cui misterioso coraggio lo trascina a prendere coscienza di sé. Sarà allora il trionfo, seppur drammatico, della musica e della libertà, poiché dalla cornetta di Mario verrà il segnale della riscossa antifascista. Libertà esecutiva (la capacità di improvvisare di cui Mario discute con gli amici) e libertà sociale e politica si costituiscono quale percorsi paralleli, mediati dalla ragazza:

"Davvero non riesco a capire cosa c'entra il fascismo col jazz. Si tratta di musica."
"Non è come un'altra", dice Bessie.
"Perché è negra, è americana".
"No, perché è di gente sfruttata, di schiavi che vogliono la libertà";

e trovano infine il loro compimento di fronte al mistero di una perdita (la morte di Bessie per mano dei fascisti), allorquando Mario per la prima volta "tenta di riflettere, di abbracciare tutta la verità che egli si è fatta incontro d'improvviso". Evitando la trappola del compiacimento esotizzante, il jazz si presenta qui in una veste inedita ma convincente. Come il flauto magico di mozartiana memoria, la cornetta d'argento è lo strumento di un'iniziazione: la conquista del suono indica, e implica, l'uscita del chiaroscuro dell'adolescenza e l'entrata nel mondo della consapevolezza e della responsabilità.

Giorgio Rimondi, La scrittura sincopata: jazz e letteratura nel Novecento italiano, Mondadori, Milano, 1999, pp. 203-204.

 

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