Il Circolo OtesV La festa è alla fine e sono rimasti gli intimi di casa, un gruppo che ancora insiste a ballare. Vogliamo finire in bellezza propone Bix ai colleghi, mi piacerebbe chiudere con St. James Infirmary proprio quello che ci vuole per una carcassa come me. Non prenderla così calda dice il piano, ci guadagnerai a non doverti più spremere i polmoni. St. James Infirmary è una musica che racconta di negri tubercolotici e alcolizzati e d'una corsia d'ospedale dove nella notte è morto uno dei malati che ora giace tutto coperto sul suo lettino e nell'alba grigia i negri della camerata sono tutti desti e non parlano pensano al loro turno poi entra qualcuno e il cadavere viene portato via, rimane il suo letto vuoto bianco come la livida alba e gli altri a fissare quel bianco, la gente applaude si avvicina al palco e con questo ho finito dice Bix. Vecchio Bix sei sempre in gamba dice il padrone, c'è un extra per te se ci suoni un motivo dei nostri bei tempi. Chiede una giovane donna, suonate quel motivo che dice non ti potrò scordare piemontesina bella. Zitta scema, metti giù le gambe che te la vedono, sei senza, ah ah sono trasparenti. lo vorrei quella canzone di Josephine Baker, come fa maestro, come fa. J'ai deux amours dice Bix sorridendo, scuotendo il capo, mi dispiace. Silenzio un momento, prego silenzio dice il padrone. Bix quanto vuoi per suonarci Giovinezza come si deve, si fa un bel coro poi chiudiamo. Qualcuno incomincia a battere le mani e l'applauso si estende, finalmente qualcosa di eccitante sul serio, cose del genere si fanno soltanto a Roma, che si sappia, dove c'è la dolce vita, noi facciamo il coro e tu fai lo strip, offro diecimila come incoraggiamento, in onore di Bix. Facciamo all'asta dice il padrone, il metallurgico. Venti in onore di Bix. Trenta. Ottanta. Meglio lasciar perdere, il metallurgico non cederebbe a nessuno, ha la vocazione del gioco e delle scommesse, inutile competere con lui, ottanta vanno bene maestro? dovresti darcele a noi per l'onore di suonare l'inno della patria. Bix è immobile a testa china, pare che aspetti una risposta dalla cornetta, grazie, molte grazie dice piano, ma il mio servizio è finito, non posso accettare. Facciamo cento allora, centomila non sono da buttar via. Bix, il cliente ha sempre ragione, è il primo comandamento dell'orchestrale. Ma è l'ultimo servizio, anche il dottore è stato chiaro: enfisema, ti conviene lasciar perdere, e sei anche troppo intossicato, quanti anni hai? trentotto, sei già un vecchio, vedi di piantarla e di incominciare un'altra vita, sei ancora in tempo. Fuori dell'ambulatorio è sera, lungo i viali ristagna la nebbia ma non fa molto freddo, fra poco ricomincerà a piovere. Da bere, il solito. Bene signor Mario, come va signor Mario, è un pezzo che non si vede più da queste parti. Va male, Gianni. Sta poco bene signor Mario? Butta giù un cognac doppio osservando nello specchio dietro il bancone un Mario che butta giù un cognac doppio. Signor Mario, di viso la trovo bene. Grazie Gianni. Va al lavoro questa sera? Ho un servizio in una villa, vengono a prendermi qui con la macchina. E domani ricominciare da capo, tanti ci riescono, una vita ordinata, una buona rappresentanza, si potrebbe anche in certe ore insegnare la musica a qualche giovane borghese: credono che si possa suonare il jazz senza conoscere la musica, una volta era così in America, sarebbe stato bello poter andare in America, ma l'impresario famoso disse cornette come te si trovano ad ogni angolo di strada, in America. Dammene un altro. Subito signor Mario. Lo sai come mi chiamo io? come mi chiamavano? Gianni versa il cognac, come si chiama? come si chiamava? non capisco signore. Non importa, non ci badare. I fari delle automobili affondano nella nebbia, bisognava cambiar vita allora, lasciar perdere cornetta e soprannome e tutto il resto, caso mai mettersi nel classico, nella musica seria, Bach Vivaldi Mozart. Il metallurgico grida cosa aspetti, vuoi essere pagato prima? Bix vorrebbe dire al metallurgico che è un porco un vigliacco a offrire tanti soldi a un alcolizzato che ha anche l'enfisema, a uno straccio. Non sai più il motivo? vuoi che te lo ricordiamo noi? In giro ridono cornuti e puttane. Posso avere da bere domanda Bix. Maestro, sei proprio una botte, cosa vuoi, ancora whisky? lasciagli la bottiglia ragazzo. Il grasso pianista dice devi deciderti Bix. Dice il padrone della villa agli altri dell'orchestra, c'è un extra anche per voi, ci penso io. Basta che ci muoviamo dice il sax-clarinetto, non fare il fesso Bix, che te ne frega, caso mai ti serviranno per l'ospedale, chiudi le orecchie e manda giu. Bix si versa altro whisky, voi accettate? La chitarra dice a me non costa niente. Buoni, adesso incominciano, state pronti, quando lo dirò io tutti in coro dice il metallurgico ai camerati, so fare anch'io il direttore d'orchestra. Bix scuote il capo scendendo dal palco e infilandosi sotto il braccio la cornetta.
Gira calmo il disco nero, ad ogni giro traballa un poco sempre nello stesso punto, sempre col medesimo guizzo lucido triangolare, ogni strumento narra la propria vicenda, distaccandosi dagli altri sale su un podio, su un pulpito, da solo, racconta confessa accusa, e gli altri giù e intorno sono giudici e spettatori, ridi scende e dopo di lui sale un altro e via via uno alla volta tutti, ciascuno col proprio timbro e col proprio sentimento, infine riprendono uniti più puri più liberi la strada quotidiana, ognuno ha buttato via in un mucchio comune gli sporchi vecchi stracci di superbia egoismo e solitudine e ora si sente felice uguale e degno degli altri compagni fratelli. Mario tiene bassa la voce della musica, ascolta seduto chino su di essa, i gomiti sulle ginocchia, le mani sulle guance, guarda come gira calmo il disco nero e come piccola in mezzo gira l'etichetta rossa e in alto c'è il tempo uniforme della lampadina accesa nel mezzo della cantina. Sopra la musica si forma un rumore, un frugare metallico dietro la porta, forse è Bessie, ma la porta si apre e non può essere Bessie ma è il padre di Mario. Mario, dice l'uomo, e il ragazzo volgendosi vede pallore e inquietudine nel padre, un uomo diverso come non ha mai veduto prima. Mario, vieni via subito, Mario. Lo sguardo dell'uomo è teso, non furtivo e distante come sempre. Vieni via Mario, dobbiamo andarcene. Il disco finisce con uno scatto secco, l'uomo fissa quel punto e torna a guardare il figlio che sta ancora seduto. Dice dobbiamo scappare, lasciare la casa, e trema la voce dell'uomo che Mario ascolta ancora senza muoversi. Lasciare la città, Mario siamo in pericolo, ci uccideranno se ci prendono. Mario si alza si avvicina al padre, lo interroga con gli occhi. L'uomo distoglie i suoi, verranno i fascisti, i tedeschi, ci hanno scoperti, hanno preso il professore. Anch'io lavoravo con lui, l'hanno preso un'ora fa, e anche altri hanno preso, verranno qui, sei un partigiano dice Mario fissando l'uomo, il padre che ora è un partigiano, un uomo con un figlio da salvare, mi piace che tu sia un partigiano, muoviti Mario, poi ti dirò, avresti già dovuto dirmelo, non potevo, andiamo dobbiamo correre, andiamo sì, e Bessie, un momento, e Bessie? Mario fa qualche passo e si ferma, e Bessie? chi era il professore? Non lo conosci, Mario, uno dei capi, non c'è tempo, parleremo poi. Sai dove abita Bessie, domanda il ragazzo, voglio avvertirla che andiamo via. L'uomo non dice dove abita Bessie, vorrebbe dire che non sa ma non riesce, pare improvvisamente non aver più urgenza e paura. Tasta la spalliera della sedia, la stringe, e anche il suo viso si fa rigido tirato, Bessie non c'è, dice, inutile cercarla, Bessie non c'è. Bessie non c'è. Mario capisci, il professore è suo padre, anche lei hanno preso, e sua madre, come altri oggi nelle case quando nessuno se l'aspettava. Sembrava tutto calmo dice Mario come diceva Bessie. Invece sapevano già tutto di noi dice l'uomo mettendosi seduto. Mi dispiace Mario, tu non dovevi entrarci. Così, anche Bessie c'era, dice Mario all'uomo che si tiene il capo fra le mani. Anche lei, dice l'uomo. Ma dovremmo andarcene, Mario, perché il padre di Bessie aveva delle carte, c'erano forse dei nomi, non so le avrà distrutte, ma sapevano tutto. E voi cosa farete, domanda Mario volendo dire voi uomini. Non c'è più niente da fare, li avranno già uccisi. Anche Bessie? L'uomo non risponde né piange o si muove dalla sedia e Mario chiudendo gli occhi incontra il dolore. Dopo viene il furore e insieme al furore, l'odio. L'odio più violento, più nero, contro tutto il mondo che sta intorno alle mura della cantina, ma anche la disperazione di essere nient'altro che un ragazzo fatto di musica di suoni di niente. Dobbiamo andarcene dice il padre toccandogli un braccio, vai su, muoviti dice l'uomo mentre si alza adagio, guarda il figlio e attende. Forse facciamo ancora in tempo. Mario dice prendo qualcosa qui. Lascia stare ritroverai tutto dopo. Nemmeno il ragazzo piange. L'uomo lascia la porta aperta, Mario lo sente salire le scale senza fretta. Avesse soltanto giocato Bessie al sotterfugio del mercato nero, ma fa male sentirsi dentro il nome di lei, vedere il suo viso tondo malizioso, riascoltare la sua voce i suoi blues. Ci vorrebbe una cerimonia anche per Bessie, un ricordo come per gli altri morti della guerra, ma è tardi. Mario si guarda attorno, l'occhio del negro sembra triste, triste e inutile ogni cosa della cantina. Mario prende la cornetta dal credenzino dove sta docile sotto la camicia di panno, sale le scale, incontra il padre. Vanno per mano all'aperto, nell'oscurità grigia, nel freddo della sera, nella pioggia. Mario si trova a camminare e le strade sono nuove mai viste, gli pare di non essere mai uscito di casa prima, la mano del padre è calda e sicura, sicura com'era la cantina. Mario si ferma poiché è arrivato dove voleva, davanti a lui sono dorsi spalle nuche di gente che sta radunata e guarda tutta in una stessa direzione laggiù oltre la piazza dove più scuri della sera si vedono i pali delle forche e sotto un muoversi di piccole ombre. Intorno ci sono i fondali uniformi delle case, nei vuoti il cielo cupo ha bagliori viola, e in alto è la pioggia che non si vede ma si sente addosso, penetra fra la gente che sta ferma e guarda con occhi vivi riparati dalle falde dei cappelli dai berretti dai fazzoletti neri, sempre di più ne viene di gente e le file si stringono, i gomiti si toccano, i petti si pigiano contro le schiene. Mario è certo eppure vuole domandare, sì c'è anche una famiglia, un uomo una donna una ragazza, una bambina forse, non si vede bene, prima hanno anche fatto un falò con dei libri, sei un parente? Si bagnano gli occhi di Mario non di pioggia ma di un liquido caldo copioso, un fiume di dolore e di odio. Non c'è più nulla da fare per Bessie, Mario piange a denti stretti guardando in giù il selciato che piange, Mario vorrebbe buttarsi per terra perché tutto è troppo grande troppo forte per un ragazzo che sta allo scoperto sotto la pioggia, senza la sua musica il suo jazz, lontano dalla sua tranquilla cantina. La cornetta, a nulla serve la cornetta se non c’è più la cantina, se non c'è più Bessie, Mario sfila il metallo dal fodero di stoffa, fosse davvero almeno una spada, ma prova ora Mario sensazioni sonore d'argento, ondate di un mare entro cui si immerge per la prima volta. Mario respira profondo a lungo, eccitato dal silenzio come d'attesa che gli sta intorno, gli entra aria nei polmoni e spazza quella fumosa della cantina, aria pura come la pioggia che gli bagna il viso e i capelli. Mario imbocca la cornetta, brandisce un'arma che propaga nel cielo un freddo balenio. La prima nota esce e come una bomba echeggia in tutta la piazza e più lontano, la gente viene percorsa da un fremito, si scuote, cerca con gli occhi stupita incredula, attenta perché dietro quella ve ne sono altre di note, forti come quella, meste e solenni come rintocchi di campana. Mario suona e piange, immobile fra la gente che gli fa cerchio intorno, i suoni dilagano lenti e precisi destando brividi nelle facce che si interrogano mute nel buio, un lamento un terribile lamento è quello della cornetta. Mario non si avvede che sta improvvisando la musica, sente solo un rullare lungo di tamburi accompagnare le sue note, la gente batte i piedi, pesta il selciato irrequieta: Mario si muove, incomincia a camminare col lento passo di una marcia funebre, al ritmo della musica che continua a uscire dalla bocca della sua cornetta. La cornetta è al centro della piazza con dietro una nera massa brulicante, avanza e dietro viene la folla, un'ira che cresce sotto il manto d'argento che la cornetta tende intorno. Più sotto, come il rullo del tamburo che accompagna la musica, è un mormorio minaccioso, avanti cammina il dolore e dietro con passi sempre più decisi viene l'odio. Le forche ingrandiscono e nella foschia si incomincia a distinguere chi sta sotto di esse: il gruppo dei fascisti è rivolto verso la piazza, verso la marea che avanza gonfiata dall'oscurità, i militi guardano smarriti e dire che mai si sono sentiti sicuri e vittoriosi come in questo giorno in cui sono riusciti ad uccidere tanti partigiani, l'ufficiale non parla, non comanda, se spariamo ci faranno a pezzi, cristo e quel suono tremendo si avvicina, entra nel cervello, saranno più di mille. Dietro i militi sono le forche, tre cadaveri penzolano e in terra stanno distesi altri corpi inerti. La musica finisce con una nota lunga, un grido di vendetta, cade una pausa di silenzio e urla si levano, un uragano, la gente corre verso le forche, i militi quelli che possono scappano senza sparare, la folla invade il luogo maledetto, si fa sotto le forche, gente carica d'odio, di rabbia antica anche di molti anni, troppo pochi sono i fascisti che si fanno prendere, muoiono troppo presto, giacciono per terra come sacchi insanguinati. La rabbia si concentra contro le forche e a spallate a urti a bestemmie vengono abbattute una dopo l'altra, si alza un clamore di vittoria, chi propone di bruciare quel legno infame, chi si pente di averlo sradicato perché vi si potevano appendere i fascisti, chi grida nel buio alle finestre cieche intorno che si sono aperte e la gente si è affacciata e guarda senza distinguere nulla e ascolta il tumulto col tumulto dentro, forse è finita la guerra. La gente si curva sui cadaveri dei partigiani, Mario con i capelli sugli occhi, la cornetta in pugno, felice e disperato, trova Bessie e piange, non sembra Bessie la ragazza distesa nella morte, peccato Bessie che tu non abbia sentito suonare Mario poco fa, l'avevi detto che sarebbe riuscito. Bessie sta ad occhi chiusi, senza più il suo sguardo raggiato e luminoso, e non ha più voce Bessie, la meravigliosa voce che ha cantato per Mario che continua a piangere nella pioggia che scende uguale lenta sui cadaveri e sui vivi. Questi esultano sotto la pioggia ora che sono padroni e non hanno più paura e anzi dall'angolo conquistato spargono la voce che arriveranno delle armi, e tutti con impazienza attendono armi, anche le donne e i vecchi, le armi che i partigiani non tarderanno a portare perché certo sono stati loro i partigiani a organizzare la scena della tromba e i cittadini hanno risposto come quegli altri cittadini che circa un secolo prima hanno cacciato dalla città gli austriaci. Le armi sono attese anche se pochi saprebbero usarle, eppure ugualmente le chiedono. Nelle case, sempre più case come una macchia dilagante a partire dalla piazza, le luci delle cucine sono state spente per poter aprire le finestre e il freddo è entrato e ha liquidato subito quel poco di calore raccolto intorno alle stufe, volano i commenti le notizie attraverso i cortili, nel buio dei porticati: il palazzo del podestà è in mano ai partigiani, al popolo insorto, i fascisti fuggono, si na-scondono, stanno arrivando gli alleati, la guerra sta per finire, ma perché il cannone del fronte tace? Nessuno accende le luci, non è certo che gli aerei sappiano cosa sta succedendo nella città, all'ex "posto di ristoro" dove la folla aumenta, ma la conquista non progredisce, le armi non vengono. Viene invece la fine della piccola repubblica, incomincia con un rumore sordo e lontano che si fa strada fra le discussioni della folla, uno sferragliare pesante sul selciato, uno sferragliare spaventoso perché via via più riconoscibile, finché nella calma improvvisa si propaga improvvisa anch'essa una voce unanime, arrivano i tedeschi. I tedeschi arrivano con frastuono di ferro, due rumori, uno da un lato, da via Indipendenza, bel nome da calpestare col ferro, l’altro da piazza Maggiore, due carri armati. La folla sta incerta per qualche attimo ancora, cerca di penetrare il buio e la pioggia, di continuare a sperare, ma nasce un lampo livido in mezzo a via Indipendenza, un fischio attraversa l'aria e un fragore rosso esplode alto contro i mattoni del muro massiccio del palazzo. Un'altra esplosione illumina il panico, la folla che si disperde fra il fumo e pezzi di pietra che volano, e da piazza Maggiore incomincia a sparare una mitragliatrice, con lunghe dita divaricate e luminose che cercano di afferrare la gente. Mario è in piedi allo scoppio della prima granata, stordito dalle urla fa qualche passo senza sapere dove, passi di piombo, ma, viene travolto da ombre che lo investono e lo scavalcano e sono tutt'uno col buio, e sta sdraiato Mario, le mani nei rigagnoli del lastricato, quando sente una voce vicina, un chiamare sommesso, Bix. Bix. Sono qui dice il ragazzo, in quel momento spara la mitragliatrice ma le strie rabbiose rimangono lontane, la raffica si spegne e la voce riprende vicinissima, Bix, il ragazzo distingue un'ombra d'uomo e una mano l'aiuta ad alzarsi poi ancora mano nella mano a correre via, lontano da scoppi e scalpiccii e sferragliare, lontano verso un nero silenzio lucido di pioggia, non ti agitare devi dormire Mario, la cornetta è qui, dormi. Con la cornetta Bix poteva fare proprio tutto, diceva Bessie. (pp. 252-264) |