America oh kei

Bompiani, Milano, 1984, pp. 148 (Raduga, Moskva, 1987)

Una delle imprese più affascinanti dell'intelligenza e della fantasia è immaginare il futuro. Per quanto collocata nel fantastico, questa di D'Agata è una proiezione del presente. Siamo in un'America ormai padrona di un mondo postatomico, dove per comunicare sono sufficienti poche centinaia di vocaboli; la politica è stata soppressa, il consumismo si è trasformato in culto, comperare e subito buttare è il primo dovere del cittadino; tra le montagne di inutili oggetti nuovi, tra cardinali e generali, residuati impropri di civiltà dissolte, un Riccardo 111, figlio del papa-Sovrano, tesse le sue trame... America oh kei è una avventura letteraria di alto contenuto ideologico, sostenuta da un linguaggio che trova nella materia narrativa la propria necessità. Un romanzo orchestrato come una partitura musicale, calcolata con rigore, per evocare effetti sonori anche al livello dell'ordinaria lettura mentale. Così le esclamazioni, ossessive, che D'Agata usa per il loro valore espressivo primario, penetrano nel tessuto verbale e schiacciano, scacciano le parole, spostando il discorso verso i gradini più bassi. Ma non esiste già, oggi, questo linguaggio preafasico? Anche se malvolentieri se ne parla, nell'Occidente più avanzato, per una sorta di fenomeno implosivo, la comunicazione orale si sta contraendo. Il numero dei vocaboli di impiego corrente diminuisce, giorno per giorno, cedendo sempre più spazio all'impossibilità del dire e quindi del pensare. Quanto alla scrittura e la lettura, le cose non vanno meglio: l'analfabetismo dilaga, l'apprendimento infantile va poco al di là di un meccanico leggere e scrivere, i più semplici test psicoverbali diventano prove insormontabili. Questo futuro lo stiamo vivendo. Oh kei?
(dalla seconda di copertina)

 

Critica

Prima del “grande bang”. Dopo il “grande bang”. La bomba apocalittica – the day after – divide le epoche anche nell’ultimo romanzo di Giuseppe D’Agata, America oh key. Ma qui fin dal titolo c’è l’ironia e l’agrume con cui lo scrittore tratteggia il suo posdomani.
Si tratta di una favola crudele, un apologo paradossale e beffardo, un conte philosophique che un po’ fa pensare a Swift, un po’ ai fumismi di un palazzeschiano Perelà rovesciato. La matrice è shakespeariana, liberamente ispirata al Riccardo III. Quanto al Riccardo protagonista dello stralunato racconto di D’Agata, è la «personificazione della trasgressione, della deviazione». È bruttissimo, è gobbo, è schifoso, ha una gamba più corta dell’altra, rattratta, ha magre natiche e collo rettile, è bastardo e matricida, infido e assassino. Lui stesso dice di sé: «Osservare-studiare-la mia ineffabile, ineguagliabile bruttezza, mi procura una acuta emozione».
Riccardo è fuggito da tutti, rifiutato, emarginato. Suo padre è il papa-re di una teocrazia del rifiuto, che si fonda su un consumismo iperbolico, trinitario (produzione-consumo-rifiuto). Il Paese del rifiuto si chiama America. Qui i rifiuti coprono i palazzi e si acquista per buttar subito via ciò che si è acquistato perché «la produzione non si regge quando i bisogni vengono soddisfatti calano i consumi». Qui la gente è ingurgitata dai rifiuti, vi immerge e scompare per scelta e necessità.
In questo Paese che fa guerra all’Europa per trarne manodopera e che usa pochissime parole a testa, condite di molte esclamazioni («le esclamazioni sono il sale della lingua»). Riccardo compie la su ascesa irresistibile e machiavellicamente trama e la spunta. Ma si fa per dire. Tutto infatti è un precipizio di nichilismo e di afasia. L’ultima immagine è «una palla coperta di merda».
D’Agata, più conosciuto peri suoi romanzi di costume come Il medico della mutua, continua con questo romanzo-laboratorio i suoi esperimenti narrativi già provati in lavori come Il circolo Otes e Primo il corpo. L’elementarità apparente del dettato sollecita a più piani di lettura. Se non altro perché lo stesso Riccardo sa bene la regola: «Gente mia, il trucco del raccontare bene (come si deve) consiste in questo-ch-che bisogna svelare-per scoprire-le cose un pezzo per volta ch(?) non in successione ordinata».
Giovanni Tesio, Riccardo nel paese dei rifiuti, «Tuttolibri», 31 marzo 1984.

 

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