America oh kei

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Uh. Uhuh.

Dico uh e scrivo noia.

Dai venti piccoli teleschermi che mi consentono eheh di spiare ciò che succede in venti luoghi – tanti troppi – di questo palazzo – enorme, il palazzo papale, – non viene che noia.

Tedio.

Tedio dice (suona) meglio. Si addice – è congeniale, si confà – a un eroe. Che sarei io.

Taedium vitae oh è latino. Vero latino, garantito.

Gente, a che serve spiare delle intimità, che gusto (succo) c'è, quando esse non differiscono dagli atti – gesti comportamenti – che avvengono in pubblico?

Nessuna delle persone che osservo, che tengo d'occhio (spio) con le mie telecamere nascoste, ha una vita privata – intima – degna di interesse. Voglio dire non è roba che possa dar luogo a ricatti da parte mia.

Escludendo le dita nel naso o lo sputacchiare in giro, le persone che sorveglio non compiono alcun gesto che vada fuori dalle norme.

Non trasgrediscono mai.

Scrivere mi diverte. Mi affatica, mi strema. Mi eccita.

La scrittura qui è praticamente scomparsa.

lo solo la tengo in vita con queste pagine. Calma. A tempo debito saprete perché le scrivo. Uh le parlo. Le dico.

Quasi nessuno sa leggere. Salvo i segni dell'aritmetica e dell'algebra. Che tutti conoscono bene. Benino.

Eheheh. Chi scrive vince il tedio perché lo trasmette, lo passa a chi legge?

Uh con le esclamazioni io so dire tutto. Le esclamazioni sono il sale della lingua. Priva delle esclamazioni la scrittura parlante è piatta, falsa, incomprensibile. Scema.

Quando non sapevo parlare, cosa che è accaduta fino a poco tempo fa ("Quell'animale di Riccardo vuole fare parlare il sesso"), riuscivo a dire ogni cosa, compreso l'indicibile, con le sole esclamazioni.

Se non lo sapete provate, imparate anche voi a parlare usando soltanto ih ah oh uh eh. Con un sacco infinito di combinazioni, naturalmente. Vi accorgerete che riuscite a dire tutto e bene. Meglio e sempre meglio.

Via i vincoli – gli obblighi logici – di grammatica e sintassi, è la lingua che più dice. La più avanzata. Universale.

Ritorna nella musica, anzi nella purezza assoluta del suono.

Mentre qui nella imbelle capitale ancora si parla la vecchia lingua – a stento, meno male, e sempre meno – nelle sterminate contrade di questo grande Paese la gente dialoga così:

"Oh."

"Uh."

"Eh."

"Ah."

"Ih."

Metteteci i gesti e le facce, i segni che oramai giustamente sostituiscono ogni possibile scrittura, ed ecco il dialogo:

"Senti, figlio."

"Ti ascolto, padre."

"Ti avevo detto di seminare il granoturco."

"Me n'ero scordato."

"Quanto sei stupido, figlio."

Oppure:

"Marito, avremo un altro figlio."

"Che bella notizia, moglie."

"Dovrai lavorare di più."

"Non è questo che mi preoccupa."

"Sei il migliore dei mariti."

Non è fantastico?

Voglio dire – dirvi – perché ho incominciato tardi a parlare. L'ho fatto apposta.

Qui insegnano a dire le duecento parole necessarie. Ritenute ancora necessarie (ma già ne bastano molto meno). Anch'io le ho imparate.

Da bambino, come tutti. Ma ho lasciato credere di non saperle – poi vi dirò perché, anzi lo capirete da soli perché mica siete tanto stupidi – e ho voluto impararne altre duecento, pescandole qua e là, come potevo (i libri di avventure, i libri che si usavano una volta, quando non era ancora venuto il dopostoria), poi altre duecento, con disgusto certo, ma con efferata determinazione. Diabolica.

E via fino alle parole difficili, rare, come quelle che mi compiaccio di dire qui. Che forse nessuno capisce. Nemmeno voi ahah amici. Se così vi posso chiamare, ma solo per convenzione di scrittura, perché io non ho amici. Non ne voglio avere.

In questo momento, poiché sono solo, sono nudo. Anche il bel Giovanni, l'abate di Boston, in questo momento è nudo. Lo vedo nella vasca da bagno.

Lui è nudo perché (in quanto) sta facendo il bagno, mentre io sono nudo perché la nudità, anche la mia, mi eccita, e più di tutto perché sono ben consapevole che sarei rimproverato ("Riccardo, sei un animale, un porco sacrilego") se qualcuno mi sorprendesse così.

Ma nessuno può scoprirmi.

Questa stanzetta, dove ci sono i miei venti teleschermi, è segreta, sperduta fra le infinite (innumerevoli) pieghe dei corridoi e delle scale del palazzo.

Eheheh. Scommetto che già comprendete quel che voglio dire quando faccio eheheh. Sapete già la differenza con eh eh eh.

L'ho costruito io l'impianto televisivo a circuito chiuso. Servendomi di un manuale di elettronica scovato chi sa dove.

La vecchia, dimenticata elettronica. A quanto ne so, la tecnologia elettronica – specialmente la telematica – venne imposta al mondo intero dai giapponesi.

Prima ovviamente che sparissero, inghiottiti dal mare insieme alla loro scarsa terra, sembra per uno scherzo di vulcani.

O per una guerra. Noi contro di loro. Pochi istanti di tanto tempo fa.

Chi sa quando, gente.

Una volta per marcare il trascorrere – fluire – del tempo macroscopico, c'erano i calendari.

Mesi o lune. Anni.

Secoli.

Oltre alle attuali due stagioni esistevano altre due stagioni. Ma erano poco funzionali, e sono state incorporate

nelle due principali. La calda e la fredda.

Vediamo: Giovanni fa il bagno. È l'unico che lo fa, in tutta la corte. Mi domando se non sia una trasgressione.

Secondo me, sì.

Ma Giovanni non è ricattabile.

La sporcizia è la regola, ma non c'è una norma che vieti la pulizia corporale.

Sviluppando un ragionamento, si può intendere la pulizia come un restauro, un atto di conservazione. Questo insomma significa risparmio. E questo sicuramente è un male per la nostra religione.

La religione detta del rifiuto.

Di cui dirò – vi darò contezza – poi. Ma Giovanni – ripeto – non è ricattabile. Ecco il suo protettore: papa Edoardo.

Mio padre.

Dorme nel suo grande letto (maculato di chiazze di brodo mestruo sperma sudore saliva merda) accanto alla stanza dove il suo amato Giovanni indugia piacevolmente immerso nella vasca da bagno.

Dorme, il papa.

Gran parte del suo tempo lo dedica al dormire artificiale. I suoi neuroni sono gonfi di ipnotici. Sonniferi.

Se annega – spegne – nel sonno quella cosa inebriante che dev'essere il potere, l'esercizio del potere, non può che

essere irrimediabilmente rincoglionito.

Lei nell'altro monitor è Margherita.

La vecchia Margherita – mia madre – prende le solite dieci scatole di polvere vegetale mista a estratto di carne.

Nove, come sempre, le butta via senza nemmeno toccare (violare) l'involucro di plastica trasparente. Apre la scatola che nemmeno, versa la polvere in una pentola a pressione e pone la pentola sul fuoco.

Il pranzo papale è fatto anche per oggi.

Come ogni giorno.

Certo che l'enorme cucina di Margherita fa un bell'effetto. Oltre al contenitore centrale, un diciotto piedi di diametro, largamente traboccante, i rifiuti hanno invaso tutto il pavimento, per un'altezza di tre piedi buoni, salvo i passaggi – sentieri – tenuti sgombri per il via vai abituale.

Una cucina opulenta, davvero degna della corte di un papa.

Il papa più potente della storia.

Sono quasi sulla cima del palazzo. Da una finestrella posso vedere una bella fetta della città. Non so se in alto c'è il cielo – nessuno mai lo nota – ma fra il fumo e il vapore. delle numerosissime fabbriche si distinguono le sagome delle abitazioni più recenti.

Costruite come delle torri altissime.

Una meraviglia.

Sono cave, e in questo modo sono capaci di contenere tonnellate e tonnellate di ricchi rifiuti.

La gente è al lavoro. Nelle strade vi sono soltanto delle donne in giro per la spesa. Tutto sì, regolare.

Normale.

Basta. Già troppe volte mi sono dato – impartito – l'ordine di agire. Ma sempre qualcosa (accidia prudenza paura) mi ha indotto a rinviare. Procrastinare.

Domani, aspetta domani, Riccardo.

Che vergogna, Riccardo, sei un inetto, sei un coglione come mi chiama mio padre.       

Ma questo continuo rimandare dovrebbe pur avermi procurato tre vantaggi.

Uno. Oramai nessuno mi teme. Tutti ridono di me mi ritengono un imbecille, un ragnaccio assolutamente inoffensivo.

Due. In questo frattempo, di pari passo col tedio dovrebbe anche essere nato e cresciuto il mio odio. Non lo so, gente, ma mi sento una molla compressa al massimo, che una volta liberata scatterà con un vigore spaventoso.

Tre. Ho imparato bene bene a leggere e scrivere.

Certamente coloro che sanno farlo, ma non come me, in tutto il grande Paese, si possono contare con le dita delle mie mani e dei miei piedi. Non di più.

I pochi che, secondo le vecchie regole (ma io le cambierò), tengono nelle loro mani il potere.

lo sono contro tutte le regole.

Quasi tutte.

Nella mia stanza ho conservato un pezzo di specchio.

Mi piace rimirarmi: come sei bello Riccardo! Fai schifo che è un piacere. Osservare – studiare – la mia ineffabile, ineguagliabile bruttezza, mi procura una acuta emozione.

Mi infilo la tunica nera, quella che mi fa sembrare un grosso ragno. Un ragno velenoso.

In questo mondo così perfetto, proteico glucidico lipidico vitaminico, in questo grande Paese che e il migliore dei paesi possibili, chi sa perché i cromosomi che mi hanno generato non hanno saputo lavorare con la dovuta efficienza.

lo sono una eccezione.

Vale a dire uno scarto, un rifiuto, uno zero eheheheheheh. Ihih.

Ho bisogno di compiere degli atti rituali. Che mi portino bene, fortuna. Che mi aiutino a colpire con lucidità e precisione.

Oggi, non domani.

Subito.

(pp. 5-10)

 

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