Il Segno del comando

Rusconi Editore, Milano, 1987, pp. 220 (Goldmann, München, 1990; ristampa Newton & Compton, Roma, 1994)

La “vacanza romana” di un uomo che, inseguito da incubi e inspiegabili presenze, scopre nella propria insicurezza un modo di vivere al quale gli sarà sempre più difficile sfuggire.
(dalla quarta di copertina)

Un uomo e una donna entrano in contatto oltre i limiti della vita e del tempo: è la straordinaria esperienza di Edward Forster, giovane docente universitario inglese, e di Lucia, una fascinosa e sfuggente ragazza che sembra guidare il professore verso misteriosi traguardi. La vicenda si snoda nel dedalo notturno di una Roma inquietante e fosforica, regno e dominio di Lucia.
Scrittore di balenanti ispirazioni, Giuseppe D'Agata invita il lettore nella “terra straniera” dell'occulto e della metapsichica, nel pieno di un vortice emozionale dove la razionalità e il sentimento si smarriscono negli stupori del sovrannaturale. La parapsicologia, ne Il Segno del comando, ha il senso di un accrescimento di realtà e il “mystery” lievita nelle più autentiche inquietudini dell'uomo contemporaneo.
Lucia, la ragazza-immagine, condurrà il giovane professore inglese sempre più addentro, sempre più al profondo di una Roma che abbaglia e sorprende, al di là delle apparenze turistico-monumentali, da via Margutta alla Basilica di Massenzio, dall'antico Caffè Greco al Cimitero degli Inglesi, fino alle soglie dell'imperscrutabile dove si librano le rifrangenze delle “vite segrete” che la luce del giorno nasconde agli increduli. Attirato da un flusso di voci, di musiche e di fantasmi, il protagonista rischierà di venire imprigionato per sempre negli incantesimi della città.
Ma esiste davvero la Roma arcana e inesplorata che Edward Forster attraversa? E la bellezza di Lucia appartiene al sogno o alla realtà? Il Segno del comando, romanzo di sorprese e di meraviglie, è essenzialmente la “vacanza romana” di un uomo che, inseguito da incubi e inspiegabili presenze, scopre nella propria insicurezza un modo di vivere al quale gli sarà sempre più difficile sfuggire.
(dalla seconda di copertina)

Note: rielaborazione della sceneggiatura dell’omonimo sceneggiato televisivo per la regia di Daniele D'Anza, andato in onda con grande successo nel 1971 sul Programma Nazionale (vd. scheda).

 

Parla l’autore

Le prime idee dalle quali avrebbe preso corpo l'originale televisivo Il Segno del comando risalgono all'autunno del ’68. In quel periodo fra me che da poco mi ero trasferito a Roma e Flaminio Bollini (Flem) per gli amici: un regista radio televisivo di grande talento era nato un sodalizio umano e professionale fondato su forti affinità di cultura e di gusti e soprattutto sul desiderio di esplorare nuovi territori nuovi orizzonti del mezzo televisivo le cui potenzialità affascinavano entrambi. Un’ondata di interesse per le scienze occulte era salita in quegli anni in tutti i settori dell'industria culturale internazionale, dal cinema all'editoria ma la richiesta di “tuffi” nel mistero che anche il pubblico italiano esprimeva non aveva ancora trovato una risposta nei programmi televisivi; d'altra parte senza una prova concreta era impossibile risolvere gli interrogativi di molti sull'ampiezza reale di quella voga culturale: fenomeno di élite per alcuni, scoperta di massa per altri. Da questi presupposti e come per scommessa nacque Il Segno del comando. L'accoglienza più che lusinghiera della grande platea televisiva – vero giudice della moderna cultura di massa – dimostrò che il bisogno di mistero apparteneva e appartiene alla coscienza collettiva piuttosto che alla raffinatezza snobistica del gusto individuale.
La sceneggiatura – scritta nel '70 – venne affidata per la realizzazione a Daniele D’Anza. Voglio sottolineare che tre “forestieri” i milanesi Bollini e D'Anza e il bolognese D’Agata si unirono per mostrare i due volti di Roma: il volto ammirato dai visitatori di tutto il mondo e quello non meno affascinante dai lineamenti segreti misteriosi magici.
A proposito di misteri e magie la troupe tecnica e gli attori – Carla Gravina e Ugo Pagliai, Rossella Falk e Massimo Girotti, Paola Tedesco e Franco Volpi, Silvia Moneli e Carlo Hintermann e tutti gli altri – mi hanno riferito scherzando ma non troppo che durante la lavorazione si verificarono dei piccoli inspiegabili incidenti: fondali che crollavano, luci che si spegnevano senza motivi apparenti porte che si aprivano quando dovevano restare chiuse... Normali contrattempi ingigantiti dalla suggestione poiché si trattava di uno sceneggiato certamente insolito. Insolite e suggestive erano perfino le musiche di Romolo Grano: basti citare la canzone Cento campane (parole di Fiorenzo Fiorentini) entrata stabilmente nel repertorio dei canti romaneschi.
Bollini e D’Anza non ci sono più. Anche per ricordarli e non solo per corrispondere a tante e insistenti richieste ho deciso di utilizzare la massa di note e appunti che ho conservato e di misurarmi con questa nuova scommessa: evocare personaggi e atmosfere di una fantastica avventura puntando esclusivamente sulla forza espressiva delle parole.
Il romanzo in pratica non si discosta dallo sceneggiato; solo il finale è del tutto diverso: è quello che allora per motivi non solo tecnici non è stato possibile realizzare.
Concludo questa carrellata della memoria ringraziando Alberto Cerri – nipote di Bollini ed erede della sua attività professionale – per avermi concesso di far rivivere il prezioso contributo del caro indimenticabile Flem.
G. D'A., Introduzione. Il Segno del comando in tv, in Id., Il Segno del comando, cit.

 

Critica

Un medaglione con civetta, la statua di un angelo, l’immagine di una piazza fantasma «con portico, tempio romano e fontana con delfini», un diario segreto di Byron. Sono questi gli oggetti-chiave di un avvincente romanzo, Il segno del comando, che Giuseppe D’Agata ha tratto da una fortunato sceneggiato televisivo da lui scritto nel 1970.
Il protagonista della vicenda, narrata con linguaggio incalzante ed asciutto, è Edward Forster, un professore di Cambridge giunto a Roma per tenere una conferenza su Byron. Intrappolato da una rete di coincidenze e suggestioni, si smarrisce nel labirinto di piazze di una città stregata e notturna, tra chiese sconsacrate e vecchi palazzi, sotterranei e taverne, quadri e musiche d’organo, negromanti e fanciulle spettrali.
Lo scrittore manipola con abilità l’armamentario del gotico per costruire un intrigo denso di sorprese e colpi di scena. Da via Margutta a piazza di Spagna, dal caffè Greco al Cimitero degli Inglesi, il protagonista insegue le tracce di una misteriosa modella avvolta dalla magia dell’occulto e del fantastico. Intorno a lui si snoda una catena di morti, mentre affiora un gioco di reincarnazioni con un orafo del Settecento e un pittore dell’Ottocento. Sospeso tra realtà e immaginario, Forster viene risucchiato dal vortice degli eventi e trasforma la sua vacanza romana in un viaggio nei regni dell’incubo.
Massimo Romano, In trappola con Byron, «Tuttolibri», 14 novembre 1987.

L’evento che mi ha portato a parlare di questo libro del ’94, è stato il trovare in edicola la pubblicazione da parte dei fratelli Fabbri delle prime tre puntate di Il segno del comando, fiction – si direbbe adesso – in cinque puntate che andò in onda dal 16 maggio al 13 giugno del ’71 sul primo canale RAI, ch’ebbe come co-sceneggiatore e, successivamente (a quanto pare), autore del libro, Giuseppe D’Agata.
Anche se, com’è bene, non ci si rammenta il finale, si ricorda lo sceneggiato non solo perché diede il successo e la notorietà televisivi al bravissimo Ugo Pagliai – che, però, irriconoscibile compare giovanissimo in un’inchiesta del Commissario Maigret con Cervi (non ricordo quale) – ma soprattutto per la coinvolgente e ben congegnata vicenda dalle tinte fosche che si svolge spesso in ambientazioni notturne, esoteriche, che neanche tanto velatamente alludono al paranormale, al soprannaturale. Il tutto sullo sfondo di una Roma sconosciuta ai turisti fatta di stradine e vicoli, piazze, locande, osterie e case poco viste e, per questo, poco note al pubblico non residente nella capitale.
A parte la storia, la fabula, e il suo sapiente intreccio che tiene sulla corda e in stand-by lo spettatore fino alla prossima puntata, è interessante sottolineare l’uso che viene fatto dei luoghi e, con essi, del tempo. La città – una ben nota città – come Roma che per la sua storia acquisisce un’atemporalità che ben poche location cinematografiche e/o televisive possono permettersi.
A Carla Gravina bastano un vestito all’antica e un candelabro in mano (con annesse candele accese) per rasentare e oltrepassare i confini della realtà. E Roma, in quelle sequenze, diventa la Roma primo ottocentesca della quale il protagonista è alla ricerca, durante la quale affonda ad ogni passo nel mistero.
Sembra che il trapasso del tempo sia segnato dal contrapporsi del giorno e della notte, della vita romana diurna e notturna. Credo lo sceneggiato – originariamente in bianco e nero – sia impensabile a colori: anche l’oscurità narra.
E il romanzo – credo si abbia qui un caso di novelization, di scrittura posteriore alla fiction televisiva (il copyright data 1994) – riesce a restituire al lettore le atmosfere sospese di quei luoghi, quei palazzi decadenti ampi e labirintici, quei vicoli bui.
È ovvio che la novelization è una pratica narrativa che non può nascere se non dopo l’avvento del cinema e della televisione sebbene, forse, un primo illustre (quanto involontario) tentativo lo si ebbe quando Charles Lamb (1775-1834) “raccontò” assieme a sua sorella Mary (1764-1847) alcuni drammi di Shakespeare: Tales from Shakespeare (1807). Il libro fu scritto per un pubblico infantile.
Tornando a D’Agata, bello lo sceneggiato da rivedere e il romanzo che vien voglia di rileggere. Sia nella storia della TV nostrana che nella narrativa del mistero, non si può dire che ambedue non abbiano lasciato un segno. Dimostrato e suggellato dalla memoria.
sfranz., www.liblog.blogdo.net

Esistono dei libri che compaiono misteriosamente, nelle nostre vite. Può capitare di non aver mai sentito neppure nominare un autore contemporaneo, che pure pochi decenni fa conquistò una discreta fama, di sentirsi associati da un amico al suo stile e ad una sua storia, e di ritrovarsi tra gli scaffali di uno sconosciuto rigattiere etilista a scartabellare vecchi manoscritti ed edizioni recentissime, brancolando a stento, annebbiati dalla polvere; può succedere che, quel giorno, nel disordine dei settemila volumi di quella stravagante libreria quel romanzo piombi come per incanto tra le mani del ricercatore: quasi fosse venuto volontariamente incontro, completando un disegno magico.
Ed allora prima di parlarvi di questo libro vi racconterò una storia. La storia di due giovani letterati, che si incontrano in un caffè virtuale sino a qualche tempo fa inesistente ed inimmaginabile, e si ritrovano a dialogare come torrenti di fuoco, d’arte, spirito e sogni; una notte, uno di loro viene folgorato da una reminiscenza… nel tuo stile, amico, in qualche frammento della tua anima, io sento riecheggiare un romanzo perduto… storia di un letterato prigioniero di Roma, affratellato nei secoli da una leggenda d’arte e letteratura e sentimento… quel che dovresti leggere, prima possibile, è “Il Segno del Comando” di Giuseppe d’Agata. Passa del tempo, e un pomeriggio piovoso, in una viuzza della città vecchia, a Trieste, il viandante s’imbatte in una libreria cristallizzata in un tempo indefinibile. Si aggira allora, come attratto dal richiamo del testo magico, per i sempre più stretti corridoi del negozio, diretto ad uno scaffale che pure mai ha conosciuto. Il libro si materializza. L’edizione è fortunosamente poco usurata e totalmente leggibile; abbandonata in una sezione da cinquanta centesimi al pezzo, quasi fosse priva di potenziali acquirenti, pare sorridere alla fortuna del viandante e si lascia andare tra le sue mani. Il viandante sorride, esce dal dedalo di conoscenza e polvere, e si allontana nella pioggia.
Questo è un libro che domanda al lettore accortezza: è un codice segreto, un incantesimo fatato.
È la storia di un giovane critico letterario inglese, il professor Lancelot Edward Forster, e del suo viaggio misterico in una Roma confusa tra le rovine dell’antico passato glorioso e i silenzi intramezzati dallo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli nel settecento; diretto nella Città Eterna per tenere una conferenza sui diari recentemente scoperti di Byron, si trova immerso in una avventura che corromperà la sua razionalità e il suo equilibrio, tenendolo sospeso tra spettri di una bellissima modella di un pittore, reincarnazioni leggendarie, negromanzia e sedute spiritiche; ripercorrerà i passi di un perduto amore, dannato alla cristallizzazione nel dolore e nel ricordo più malinconico, e confonderà soavemente sogno e realtà. Le visioni sapranno prepotentemente avanzare e conquistare la sua mente e la sua immaginazione: ad un tratto parrà che tutto quel che avviene sia stato pilotato da un destino calibrato alla perfezione, simmetrico nelle analogie di secolo in secolo.
Il nostro Forster viene convocato in Roma da un pittore, Marco Tagliaferri: al suo arrivo, troverà a riceverlo dapprima una bellissima fanciulla, che solo di notte appare, e conosce l’arte della magia; e quindi un discendente indiretto del pittore, che gli svelerà che chi ha domandato il suo arrivo nella luminosa capitale della cultura occidentale è morto da circa cento anni. È solo il principio di un romanzo dalla narrazione seducente e scorrevole, tracciato dall’ispirata vena gotica del D’Agata, scrittore e critico d’arte misteriosamente trascurato e sottovalutato nel nostro tempo: sconcertante l’abilità nel tessere e nel dipanare una trama complessa e ricca di richiami alla musica, alla letteratura e all’arte della pittura; estraniante la tecnica visionaria adattata confondendo elementi reali ad altri onirici ad altri ancora semplicemente suggestivi; divertente l’humour di stampo britannico che attraversa senza sosta l’opera. Potremmo salutare, nel D’Agata, un precursore di certa parte della produzione narrativa di Tiziano Sclavi; con più ironia e più classe, senza ombra di dubbio, e senza dimenticare una strizzata d’occhio al “Giro di Vite” di Harry James o a certe atmosfere più prossime, diciamo, ad Edgar Allan Poe che a certe produzioni demoniache e favolosamente immaginifiche di Lovecraft. Pur non mancando morti violente, latitano completamente truculente e cruente descrizioni grandguignolesche; l’atmosfera è più prossima alla tradizione letteraria dei paesi germanici a anglosassoni, una storia di spettri e fantasmi dal sapore piacevolmente demodé e non priva del rispetto dei cliché canonici del genere: organi, finestre cigolanti, muti spettri che vagano indolenti e indifferenti per le perdute scale, codici segreti di musiche perdute e sinistre taverne dissolte dal tempo ed eternate dal sogno e dal rimpianto.
Fascinosa la presenza della romantica figura di Lord Byron in tutta l’opera: senza ombra di dubbio, inoltre, il richiamo al cimitero acattolico di Roma, alle tombe di Keats e Shelley chiude un cerchio di ammirato omaggio ad un eccellente momento artistico degli artisti inglesi, momento di simbiosi per giunta con la cultura e la tradizione nostrana. È un romanzo, questo, che può offrire numerosi livelli di lettura: ad una prima stratificazione si presenta come un’opera noir, ad una seconda come una novella tardogotica creata da un eccentrico letterato italiano, ad una terza come opera misterica. E non è forse un caso che proprio il nome del protagonista, Lancelot, pronunciato di rado e solo nelle primissime battute dell’opera, richiami liricamente e trasfiguri con uno stile impeccabile la tradizione che voleva il Cavaliere del Lago ignaro del proprio nome, sin quando non avrebbe scoperto la sua lapide funeraria, vergata da mani sconosciute in epoca anteriore: mi attendevo, e puntualmente ho riscontrato, un passo nella parte più avanzata del romanzo in cui il nostro Forster scopre una lapide con il suo nome inciso, e osserva sul marmo apparire – come in un incanto – il riflesso, e la memoria, della sua perduta esistenza. Poco importa che si tratti di una fase onirica della narrazione: semplicemente, questo atto può significare l’avvenuta presa di coscienza del proprio cambiamento nel personaggio protagonista, o l’elevazione ad uno stato di consapevolezza e conoscenza superiore. Probabilmente rappresenta la rinnovata, o ritrovata, apertura mentale del critico letterario inglese, che cede alla debolezza dei suoi schemi e del suo raziocinio ed inizia ad accettare la possibilità che quel che vede, quella mirabile convergenza di spirito e materia, leggenda e arcano e mistero, possa essere reale. Al lettore spetta l’interpretazione: la letteratura propone significati, non impone un senso definitivo e immutabile. 
G.F., www.lankelot.eu.

 

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