Il Segno del comando

regia di Daniele D'Anza (1971)

soggetto: Flaminio Bollini; sceneggiatura: Giuseppe D'Agata, Dante Guardamagna, Lucio Mandarà; musiche: Romolo Grano (la sigla finale Cento campane, di Fiorentini-Grano, è cantata da Nico Tirone); scenografie: Nicola Rubertelli;
interpreti: Ugo Pagliai (Edward Forster), Carla Gravina (Lucia), Rossella Falk (Olivia), Franco Volpi (Raimondo Anchisi), Silvia Monelli (signora Giannelli), Massimo Girotti (George Powell), Laura Belli (una ragazza), Angiola Baggi (Giuliana), Andrea Checchi (commissario Bonsanti), Carlo Hintermann (Lester Sullivan), Zuma Spinelli (la portinaia), Gino Maringola (il portiere dell'albergo), Adriano Micantoni (il maresciallo), Augusto Mastrantoni (il colonnello Tagliaferri), Leopoldo Valentini (il custode del cimitero), Giovanni Attanasio (lo sconosciuto), Luciano Luisi (se stesso, il telecronista), Luciana Negrini (una ragazza), Paola Tedesco (Barbara), Serena Michelotti (la zingara), Giorgio Onorato (il posteggiatore), Lucia Modugno (una donna), Luisa Aluigi (una bibliotecaria), Franco Odoardi (il banditore), Roberto Bruni (Prospero Barengo), Giancarlo Palermo (un cameriere), Amedeo Girardi (il sarto Paselli), Anna Segnini (una suora), Franco Angrisano (l'intermediario), Pietro Villani (uno spiritista), Armando Brancia (il portiere di notte), Giorgio Gusso (il prete), Jolanda Modio (una ragazza), Paola Arduini (la telefonista), Ferruccio Scaglia (il direttore d'orchestra), Evar Maran (il rigattiere), Enrico Lazzareschi (un muratore), Vittorio Duse (primo operaio), Aleardo Ward (secondo operaio), Attilio Fernandez (il maggiordomo), Silvana Buzzo (la cameriera), Vittoria Di Silverio (la donna con la spesa), Gualtiero Isnenghi (un bibliotecario), Bianca Manenti (una bibliotecaria), Armando Anselmo (un cieco);
produzione: RAI,Radiotelevisione Italiana; messa in onda televisiva: il 16, 23, 30 maggio e 6 e 13 giugno 1971, Programma Nazionale, ore 21

Note: grande successo televisivo, con una media di 14.800.000 spettatori. Il soggetto nasce nel 1968 ad opera di Dante Guardamagna e Flaminio Bollini ai quali si aggiungono poi Lucio Mandarà e Giuseppe D'Agata: il lavoro viene venduto alla Rai che però lo accantona momentaneamente. Qualche anno dopo viene “riesumato” e i vertici RAI danno il via alla realizzazione: i quattro cominciano a scrivere la sceneggiatura, ma Guardamagna e Mandarà lasciano subito, mentre Bollini (che si propone anche per la regia) e D’Agata continuano. Arrivati a metà e fermi a un punto morto, Bollini abbandona, lasciando D’Agata da solo che riuscirà comunque a finire lo script. Seguono diversi mesi di preparazione in studio, per poi passare alle riprese vere e proprie tra Roma e Napoli.
La realizzazione del finale è alquanto travagliata: ne sarebbero stati preparati addirittura cinque (notizia però non confermata da D'Agata), ma comunque Daniele D’Anza è costretto a cambiarlo su pressione di alcuni attori (tra cui Silvia Monelli), che lo reputano troppo poco “magico” rispetto al resto della storia. Una curiosità: la data "cardine" dello sceneggiato, il ventotto marzo,è quella di nascita di Paola Tedesco.
Nel 1994, D’Agata rielabora la sceneggiatura e ne ricava un romanzo: lo scrittore ne approfitta per ripristinare il finale originale, che svela alcuni punti rimasti in sospeso nella riduzione televisiva (vedi scheda).
Su licenza Rai Trade, la Elleu Multimedia pubblica la serie nel 2002, in due DVD. Nel gennaio 2010 è uscita una nuova versione, edita da Rai Trade, in una confezione contenente 3 DVD.
Nei primi anni novanta, Mediaset ha realizzato il remake per “La Cinq”, il “Canale 5 francese”, con Robert Powell nei panni del professor Forster (vedi scheda).


Rassegna stampa
Comincia questa sera una sorta di esperimento televisivo. Il segno del comando, infatti, viene presentato come un giallo di fantascienza: una formula cioè assolutamente inedita per il pubblico italiano che non dovrà dunque appassionarsi soltanto alla ricerca del colpevole, bensì seguire l’itinerario di una vicenda che dovrebbe svolgersi sul filo dell’irrazionale. Gli autori del soggetto – Bollini, D’Agata, Guardamagna e Mandara – hanno puntato infatti ad un gioco di suspence che è fatto di colpi di scena assolutamente illogici e dunque, tutto sommato, facili da costruire anche se risulteranno più difficili da giustificare. La storia, infatti, prende avvio dall’arrivo a Roma di uno studioso inglese che ha svolto particolari ricerche  sul periodo romani del poeta Byron, esaminando in particolare un diario cui si fanno numerosi cenni a fenomeni da scienze occulte. Fra l’altro, lo studioso viene alla ricerca di una piazza che Byron descrive fedelmente nel suo diario, ma che forse non esiste. Questo è l’avvio: il resto si snoda con un incalzare del fantastico e, ad ogni buon conto, anche di qualche morto. Gli interpreti di questo “esperimento” sono Ugo Pagliai, Carla Gravina, Massimo Girotti, Rossella Falk, Franco Volti, Carlo Hintermann, Silvia Monelli, Andrea Checchi. La regia è di Daniele D’Anza.
«L’Unità», 16 maggio 1971.

I signori Flaminio Bollini e Giuseppe D'Agata, autori del soggetto, e Daniele D'Anza, regista de II segno del comando, non danno tregua al pubblico. Le pelli che s'accapponano non si contano ormai più, di domenica sera. È un gran brivido unico che serpeggia nella schiena degli utenti, lungo tutta l'Italia, dalla Sicilia al Piemonte.
Mai fiumi di terrore erano stati versati così abbondantemente dal video dove la suspense era sempre stata distribuita con estrema parsimonia. Pensiamo solo — in questa quarta puntata — alla sequenza dell'incubo, con facce funebri e bestiali, tombe e cadaveri a bizzeffe, donne torturate, lapidi cimiteriali, bare in primo piano, pugnali che uccidono, fragori ossessionanti... Ma la sequenza dell'incubo non stava isolata: era preceduta e seguita da altri fatti angosciosi e misteriosi, un delitto al telefono, manoscritti musicali contenenti enigmi paurosi, accordi solenni d'organo che sembrano arrivare direttamente dall'aldilà, minacce continue di morte, allusioni ad esseri potenti e mostruosamente criminali, e alla fine, tanto per concludere in bellezza, il suicidio (ma sarà veramente un suicidio?) della povera Falk. In mezzo al groviglio degli orrori, sullo sfondo di una Roma che sarebbe piaciuta a Edgar Allan Poe, Ugo Pagliai è giustamente annichilito, Massimo Girotti è sospetto. Franco Volpi è ancora più sospetto e la Gravina fa la bella fantasma. Molto bene, signori Bollini e D'Agata: un'invenzione tutta di “prima”, che se fosse arrivata da oltre Manica avrebbe strappato la solita frase: «Eh, gli inglesi in queste cose ci sanno fare da maestri!». E molto bene D'Anza che ha saputo trattare l'allucinante soggetto immergendolo in un'atmosfera di fosca magia e di tensione continua, e riuscendo a costruire sequenze, tipo quella già citata del sogno orrendo davanti a cui non c’è che da levarsi il cappello (e per questa sua abilità gli perdoniamo i piccoli errori, come l'insistita e un po' fastidiosa macchietta del prete che parla in veneto).
Adesso sono milioni gli italiani che aspettano lo scioglimento del rebus. Il finale — come avviene per tanti gialli — sarà deludente o farà esplodere un fuoco d'artifizio di mirabolanti sorprese? Intanto Il segno del comando s'impone, in crescendo, da quattro settimane e questo è già un risultato più che ragguardevole.
u.bz. [Ugo Buzzolan], «La Stampa», 8 giugno 1971.

È l’ultima puntata del romanzo fantascientifico di Bollini, D’Agata, Guardamagna e Mandarà. Partito benino, questo “originale televisivo” che sembrava dovesse rompere con i consueti canoni spettacolari televisivi si è man mano perso in una suspence fine a se stessa, dove il gioco dell’orrore diventa sempre più gratuito. Certo, il romanzo resta come una “novità” anche gradevole e indubbiamente, qua e là, gli autori sono riusciti a ricreare con qualche difficoltà un clima di “misterioso orrore”. Ma si tratta, tuttavia, di un meccanismo troppo facile ché infatti questa sera, al momento dello scioglimento, offrirà una sorpresa che tutto sommato non è nemmeno all’altezza di quanto  potevano far credere le prime quattro puntate. Gli interpreti sono, anche questa sera, Ugo Pagliai, Carla Gravina, Paola Tedesco, Carlo Hintermann, Silvia Monelli, Massimo Girotti con la comparsa di Andrea Checchi nei panni di un commissario. La regia è di Daniele D’Anza.
«L’Unità», 13 maggio 1971.

Ci sono stati due momenti in cui tutta una generazione ha imparato ad amare la paura (quella giusta, però, quella che viene dall'immaginazione e non dalla realtà), ed è stato tutte e due le volte davanti alla tv. La prima, più elementare e inconscia, anche perché eravamo più piccoli, è stata con Belfagor, e chi ha la mia età non ha bisogno che dica altro. La seconda, quella vera, quella consapevole e completa, è stata con Il segno del comando. Ho ancora un brivido quando penso a Ugo Pagliai che bussa alla porta di una vecchia signora per chiedergli notizie del pittore che lo ha appena invitato a fargli visita e la signora gli dice ma come? Il signor Tagliaferri è morto cento anni fa. Non è perché eravamo più piccoli e le cose, nei ricordi, sembrano sempre più belle. È perché oggettivamente Il segno del comando era una gran bella storia gotica, come lo fu il romanzo di Giuseppe D'Agata che ne venne tratto. Intanto riusciva a proporre uno sfondo italiano estremamente suggestivo e credibile: le case, i tetti, le strade e le piazze della Roma ottocentesca, perfette per una inquietante storia di fantasmi come quella. Uno sfondo riconoscibile, familiare ma allo stesso tempo mai visto, che ti privava anche della scusa di pensare non devo avere paura, queste cose succedono solo in America. Poi lo faceva con una scrittura, un testo e soprattutto un'interpretazione difficili da trovare nella fiction di adesso. Chi se la dimentica Carla Gravina, così strana, così eterea e così spietata? E poi, ancora, lo faceva con il tempo giusto. Il tempo lento della suspense e della paura, senza un minimo di effetti speciali, senza far vedere niente, ma solo con le allusioni, con una frase o un'azione stranissima, assurda e inquietante e tutto il tempo per pensare, attraverso i volti dei protagonisti, alle cose spaventose che potevano nascondere. È qualcosa che va oltre ad un bel classico della televisione. È un'iniziazione. Se per Stephen King l'imprinting del terrore è venuto attraverso i Bmovie degli anni della guerra fredda, per noi è stato con Il segno del comando.
Carlo Lucarelli, La paura viene dalla mente, «Repubblica», 25 novembre 2001.

Dieci anni fa comprai un libro della Newton & Compton, di quelli da mille o duemila lire, il titolo mi rammentava qualcosa che avevo visto in tv molti anni prima, ricordi di quando si è molto piccoli: immagini velate, pochi fotogrammi, un sapore insieme di sensazioni piacevoli. Il titolo era “Il segno del comando”, l’autore Giuseppe D’Agata. Il romanzo mi colpì e fu come rivedere, attraverso le descrizioni dei vicoli di Trastevere, una Roma già conosciuta, riscoprirla nei suoi aspetti meno evidenti, quelli più decadenti, quasi macabri a volte, fatti delle oscurità della notte rischiarata dai fanali all’angolo di una via.
Non mi sono così voluto perdere la riedizione in dvd dello storico sceneggiato della Rai “Il segno del Comando” (oggi disponibile in un cofanetto di 2 dvd al costo di 18 euro, edito dalla Elleu multimedia), un soggetto di Giuseppe D’Agata e Flaminio Bollini, con la collaborazione di Dante Guardamagna e Lucio Mandarà, che divenne soltanto più tardi il romanzo di cui ho detto (venne pubblicato appena nel 1994). Protagonisti erano nomi del calibro di Ugo Pagliai, Carla Gravina, Massimo Girotti, Rossella Falk, Andrea Checchi, Franco Volpi, tutti di comprovata esperienza teatrale e cinematografica (Girotti e Checchi in particolare furono dei divi negli anni ‘40-‘50). La regia era di Daniele D’Anza. Per Pagliai lo sceneggiato rappresentò il trampolino di lancio che lo confermò protagonista di numerose altre produzioni dello stesso genere, la Gravina fece qui il suo esordio come fantasma per approdare al cinema tre anni dopo nel ruolo della posseduta (“L’Anticristo”, 1974).
Lo sceneggiato andò in onda le domeniche tra il 16 maggio e il 13 giugno 1971. Cinque puntate di circa un’ora, godibilissime, in cui i momenti di tensione hanno una loro sapiente calibratura. Il modello è quello di “Belfagor”, la serie francese del 1965 che ebbe un enorme successo un po’ in tutta Europa. L’esito straordinario de “Il segno del comando” indusse la Rai a progettare delle storie (“originali televisivi”, come allora si chiamavano quegli sceneggiati non tratti dai romanzi famosi) che avessero nel tema dominante una forte dose di mistero e di suspense, nacquero così il “Ritratto di donna velata” (un piccolo capolavoro, a mio modesto parere) con una giovane Daria Nicolodi non ancora celebrata musa argentiana, “L’amaro caso della baronessa di Carini”, “Il fauno di marmo”, il fanta-thriller “A come Andromeda”. Molti di questi titoli non sono stati ancora disponibili in dvd, per cui al momento non possiamo parlarne se non con un vago senso del ricordo, per quanto riguarda “Il segno del comando”, invece, una recensione è d’obbligo, e non può essere che positiva. La trama è avvincente e miscela la spy-story al racconto gotico a quello esoterico funzionando abbastanza bene (almeno fino al finale che sembra forse un po’ debole e irrisolto).
Interessante è il contributo didascalico, quale segno evidente della componente educativa della nostra vecchia televisione: la storia ruota attorno ad un segreto nascosto nei diari di Lord Byron e negli spartiti di Baldassarre Vitali, validi motivi, questi, per dissertare sulla vita del poeta inglese e sulla musica del compositore settecentesco, portando a spasso lo spettatore tra vecchi monasteri e antiche residenze nobiliari di una Roma crepuscolare e barocca.
Grande televisione, quindi, capace di avvincere nonostante i tempi dilatati di allora, nonostante il bianco e nero, nonostante la relativa acerbezza del mezzo (ricordiamo che l’avvento della tv in Italia è del 1954), e nonostante la dicotomia formale tra scene in interno (girate con la telecamera, in presa diretta) e quelle in esterno (in pellicola, doppiate). La qualità del master servito al riversamento su digitale non è sempre eccezionale, specie nelle scene in pellicola. Il prodotto televisivo (si sa) non è costruito per essere rimandato ai posteri. Definizione, questa, in netto contrasto con la distribuzione dei dvd, il cui successo nelle vendite pare in crescita costante.
L’effetto nostalgia potrebbe portare qualcuno a dubitare sulla reale qualità dello sceneggiato, ma assicuro gli amanti del genere che il valore cinematografico e televisivo è oggettivamente di gran lunga superiore a molte fiction attuali. Indimenticabile la canzone “Cento campane” che fa da colonna sonora e che è diventata un classico del repertorio romanesco. Un’ottima occasione quindi per ripescare un po’ nei ricordi, ma anche per capire l’involuzione/evoluzione del mezzo, scoprire o riscoprire quanto eravamo bravi a raccontare storie popolari, e quanto anche in questo campo ci siamo col tempo – a mio parere – intellettualizzati e inariditi.
Stefano Scarpa, www.guide.supereva.it/giallo_e_noir/

 

Link
www.serietv.net
www.teledico.com
www.wikipedia.org
www.rai.tv