I passi sulla testa

Bompiani, Milano, 2007, pp. 102

"Io dico che non se n'è andato. Potrei giurare che è qui sopra. E sa. Lui sa che io sono in questa camera"

Tutto in una notte d'inverno. La notte della paura. Il passato entra nella vita quotidiana e per una volta questo mondo e l'altro si sovrappongono e si confondono. In un antico palazzo attraversato da fremiti e tremori rivive la notte del 16 gennaio, la notte che la musica scoprì l'America. Sono loro. Sono Benny Goodman e Gene Krupa e gli altri. Sono i musicisti della band che la notte del 16 gennaio del 1938 ebbero il coraggio di scaldare con lo swing, meglio che col whisky, meglio che col gin, la sala da concerto della Carnegie Hall di New York. E c'è un'altra ombra schiva e discreta. Sembra davvero lui, un grande scrittore nostro che troppo presto ha smesso di scrivere. Non va bene dire che la morte se l'è preso troppo presto. La notte della paura non nominare chi non deve apparire. Chi c'è e chi non c'è. Chi sono gli scrittori indicati con tanto di nome e cognome, i romanzieri italiani di oggi – e di domani – i cui libri sono negli scaffali di una prestigiosa biblioteca che sembra avere le ore contate. E soprattutto chi diavolo – cancella diavolo – chi c'è nell'appartamento di sopra da decenni disabitato? Di chi sono i passi che camminano corrono danzano: e fanno fracasso e di tutto per superare il volume della musica e farsi sentire.

 

Critica

Da parecchio tempo gli scrittori italiani ritenevano, e non senza ragioni, che in narrativa alcune cose non si potessero più fare, se non nel ghetto della microeditoria: ad esempio privilegiare la scrittura rispetto alla “storia”, oppure avvalersi di strutture complesse, frantumate o “aperte” o circolari che fossero (“difficili”, insomma), o ancora mettersi a scrivere quello che si ha voglia di scrivere, senza minimamente far sacrifici al feticcio del mercato. Da parecchio tempo, in altri termini, gli scrittori italiani assistevano imbarazzati e compunti alla sepoltura del Novecento, vedendo schiudersi un Duemila che procedeva all' insegna di un Ottocento da appendice. Qualcuno, qua e là, beninteso ci provava, ma doveva presto battere in ritirata, soverchiato dai rifiuti editoriali o dalle vendite bassissime di un prodotto pubblicato di malavoglia, e destinato da subito al dimenticatoio. Ci voleva Giuseppe D'Agata, autore di lungo corso giunto ormai alla soglia degli ottant'anni, per dimostrare che lo sperimentalismo (già, proprio il nume tutelare della grande letteratura del Novecento) non solo è ancora possibile, ma è anche in grado di produrre cose egregie. Ha scritto un romanzo, breve e intenso, intitolato I passi sulla testa, fatto tutto di frasette brevi o brevissime, di nomi di scrittori e titoli di libri, di un concerto jazz tenuto nel 1938 alla Carnegie Hall e di poco altro, nonché punteggiato abbondantemente, ossessivamente, di onomatopee, tra le quali domina un TUM TUM di marinettiana memoria. Ora quel romanzo, dopo una storia editoriale manco a dirlo travagliatissima, vede finalmente la luce da Bompiani, direttamente in edizione tascabile (pagg. 102, euro 7). Ed è davvero una bella sorpresa. Il “poco altro” prima menzionato contiene tutta la “storia”, che è quella – tanto più emozionante quanto più essenziale, disseminata, graniticamente immune dal patetico – di un vecchio scrittore costretto dal figlio a lasciar libera la casa in cui abita per trasferirsi da lui, che non intende rimandare oltre il momento di lucrare sull'affitto. A casa del figlio, però, non c'è posto per i suoi libri: ce ne stanno al massimo una cinquantina, che il protagonista deve inesorabilmente prescegliere dalla sua biblioteca, per consegnare tutti gli altri alla polvere del soprastante solaio. Nella giornata precedente il trasloco, nella quale si consuma interamente l'“azione”, dovrebbe procedere all’impietosa selezione, ma è continuamente distratto da un rumore di passi che sente provenire appunto dal solaio (il TUM TUM di cui sopra), peraltro da sempre disabitato. Si ricorda allora, senza motivi apparenti, di un suo cugino, emigrato giovanissimo negli Stati Uniti e lì probabilmente divenuto un rispettato boss mafioso, che vantava tuttora come momento topico della sua esistenza l’esser stato presente alla prima volta in cui la Carnegie Hall, tempio newyorkese della musica classica, aveva aperto le porte allo swing di Benny Goodman e Gene Krupa, il 16 gennaio 1938: al punto da aver fatto realizzare privatamente due cd, uno con la registrazione integrale del concerto, e uno con i soli applausi in quanto, sosteneva, quelli che si sentivano meglio erano i suoi. I due cd, in possesso del vecchio scrittore, costituiscono la colonna sonora di quell'ultimo giorno e di quell'ultima notte, e i suoni che da essi provengono, con i vari solisti puntigliosamente nominati, si mescolano ai titoli dei libri dubitosamente scelti e al rumore di quei passi, che ora si affrettano ora rallentano, ora cambiano tono come fossero prodotti da piedi non calzati, ora acquistano un ritmo che sembra di danza. Si procede così, in un crescendo di quieto delirio che vede anche comparire nella casa l'ombra muta di Elio Vittorini – c'è, o forse no, o forse arriverà –, fino a un'alba nella quale, lo si avverte, si dovrà celebrare qualcosa: forse la conclusione dell'impossibile selezione, forse la rassegnazione a una vecchiaia che si sarebbe voluta diversa, o forse la morte stessa del protagonista, il quale ogni volta che si raffigura giace immobile in un letto, e che infine entra in quel solaio, in modo che il rumore dei suoi passi si unisca a quello misterioso degli altri, chiaramente appartenenti, ormai come lui, a un passato non riconducibile in vita. Credo sia quest'ultima l'ipotesi più plausibile, anche se non ne sono certo. E tuttavia che gioia, che liberazione, trovarsi di nuovo di fronte a un finale aperto, poter partecipare da lettore al destino della storia, e in questo mettersi in gioco in quanto essere pensante e vivente, e magari scoprire qualcosa di sé prima ignoto. Ben diverso, ve lo garantisco, dal sentirsi utenti affatto passivi di storielle raffazzonate e spiattellate fino all' ultimo inutile dettaglio, solerti discepole della non-vita e del non - pensiero propagandati in ogni dove, alla "Blade runner", dalla «civiltà» del mercato e della televisione. Giuseppe D'Agata è stato un grande facitore di “storie”, un raffinatissimo artigiano della fiction narrativa (basti ricordare Il medico della mutua, Il segno del comando, Memow). Ma è anche uno scrittore vero, che sa bene come la scrittura sia tutto, e non zero, e che sa scegliere, perché li ha tutti a disposizione, gli strumenti linguistici giusti per arrivare dove vuole arrivare. Ne fa fede, se ce ne fosse bisogno, il pathos autentico e profondo che la disarticolazione de I passi sulla testa riesce a generare, lo smarrimento che provoca, la catarsi che induce nella contemplazione di quella morte che è anche e soprattutto la morte di una letteratura, di una civiltà, di un mondo che proprio non meritavano di morire. Mi piacerebbe, concedetemelo, che questo scrittore ottantenne fosse eletto a bandiera di combattimento da quel gruppo di giovani e meno giovani che c'è e ancora resiste, costi quel che costi in termini di vendite, silenzi e travasi di bile, alla stupidità ovunque dilagante. Si farà mai, la battaglia?
Stefano Giovanardi, "TUM TUM", torna lo sperimentalismo, «Repubblica», 3 aprile 2007.

Lo so, non sono il primo a parlarne. Ma chi se ne infischia dello ius primae noctis quando si tratta di aggiungere applausi a un libro, serenamente votato a un flop glorioso. Non c'è speranza che "I passi sulla testa" di Giuseppe D'Agata diventi un best seller o stia dentro i costi (anche perché Bompiani l'ha stampato su orribile carta riciclata senza cloro). Non c'è speranza e perciò D'Agata sia lodato per questo frutto fuori stagione, per essersi ricordato del gusto di pochi, per avere riconosciuto nel tum tum tum tum tum che risuona cadenzato sulla sua testa i passi di Elio Vittorini: passi che lo accompagneranno verso l'ultimo trasloco e l'ultima sorpresa. "I passi sulla testa" chiude virtualmente la vita di un ottantenne là dove il giovane Giuseppe Pontiggia la cominciava con "L'arte della fuga". Eppure non è un'opera sperimentale, come è stato scritto rispolverando il desueto, ma una fuga dall'opera, dall'hortus conclusus della letteratura. Arriva dalla giovinezza che ritorna ad abitarci, body and soul, all'ultima fermata. Nel 1938 don Ciccì assistette estasiato alla Carnegie Hall alla nascita dello swing, e applaudì così forte Benny Goodman, Gene Krupa e la loro big band, che ancora oggi agli amici, facendo ascoltare e riascoltare una sua registrazione ritagliata dei soli applausi di quella memorabile sera, dice: ecco, ascoltate le mani, le riconoscete le mie mani che applaudono? Questo lo spunto. E la trama? Un esilissimo filo, una corda di violino che si limita a vibrare mentre tutt'intorno l'aria viene scombussolata a catena, a si-salvi-chi-può. È l'arte della digressione, nessuno la ferma soprattutto se a innescarla è un fatto ferale: l'eliminazione della propria biblioteca. Duemila volumi da seppellire nei cartoni e abbandonare in una stanza magazzino, tra anticaglie e residui di vita. Solo di portarsi cinquanta libri è permesso all'ottantenne padre nella casa del figlio, malcelato ospizio. Ma dall'appartamento di sopra, quello decrepito che non verrà affittato, dalla stanza di sopra dove finiranno la loro vita i libri, soffocati nei cartoni – ancora prima che il vecchio cominci la dolorosa selezione: tum tum tum tum, «dei passi che mi camminano sulla testa». E di chi saranno quei passi, chissà se era lui. «Certo che era lui. E chi se no? Era lui Elio Vittorini lo scrittore. Non c'è dubbio. A chi lo racconto che qua è venuto Vittorini». A quarant'anni l'autore di un successone come "Il medico della mutua" non si sarebbe ricordato, non avrebbe avuto ragione di ricordarsi dello scrittore siciliano, a ottant'anni sì, perché quel «proprio lui» è lo scrittore della sua formazione, lo scrittore cui D'Agata riconosce il debito più grande. Bisognerebbe che ogni libro contenga almeno una frase di un libro precedente, così la vita, sotto la specie della scrittura, si tramanda. Così i debiti si pagano. Ah, quella centoquindicesima pagina della prima edizione di "Conversazione in Sicilia": «E io di nuovo le domandai non so più che cosa, e mia madre disse come avrebbe voluto che l'uomo non restasse affamato e assetato di niente, e come avrebbe voluto vederlo placato, come le pareva cristiano e caritatevole placarlo nella sua fame e sete di altro. E io pensai: Benedetta vacca!». Quella benedetta vacca, scrive lo scrittore molisano dal cognome catanese, «mi conquistò in una notte. Così è – non dico e non dirò mai era o fu o è stato. Così è Vittorini scrittore». A ottant'anni D'Agata resuscita Il Felicemente Eclettico, Il Temuto Numero Uno della nostra letteratura novecentesca. «Vittorini era tutto. Direttore, redattore, fattorino. Manager. Quale manager. Allora non esisteva neanche la parola. Leggeva, scriveva lettere, spediva pacchi, riceveva autori». Ricevette anche chi lo ricorda in questo tributo e il suo frammentato ritratto è un'apparizione fantasmatica. Da qui in avanti, Vittorini è infatti il protagonista-che-non-c'è del romanzo aperto di D'Agata. Riconoscimento di una corrispondenza tra allievo e maestro che ricorda Paolo Conte o il "Caro Goffredo" (Parise) dell'ultimo Raffaele La Capria. «Stretti amici no – scrive D'Agata – Però era il mio maestro. Lui non lo sapeva ma che c'entra è normale. Non è che di punto in bianco prendi su e dici a uno scrittore che ammiri, se permette la nomino mio maestro». E allievo in fondo nemmeno lui lo era. Non esistono più gli allievi di una volta, i ragazzi di bottega. Garante sì, ecco cos'era Vittorini, perché dopo avere letto, discusso, corretto con gli autori i loro libri, li garantiva, spianandone il percorso editoriale e gli abboccamenti con le grandi case editrici. «Chi garantisce i libri oggi? Oggi i libri si garantiscono da soli. Ci vuole soltanto il coraggio di scrivere dei libri nuovi». Certo, altro in comune c'è: oltre la scrittura, il jazz e la convinzione che un libro vero lo puoi riconoscere dallo swing. Un uomo dai suoi passi. Sì quei passi devono essere proprio di Vittorini. Anche se Vittorini aveva solo due gambe. Tum tum tum. E adesso sembrano proprio i passi di qualcuno che ne ha tre.
Francesco Gambaro, Vittorini e i suoi passi, «Repubblica», 13 aprile 2007.

Sulla soglia degli ottant'anni, Giuseppe D'Agata ci regala un piccolo grande libro, modernissimo e insieme démodé, ispirato a uno sperimentalismo di classe, costellato di frecce di ironia che rallegrano la mente del lettore. Scrittore defilato, ha avuto almeno due momenti di notorietà con i romanzi Il medico della mutua (1964), divenuto popolare anche grazie al film con Alberto Sordi, e Il segno del comando (1987), tratto da uno sceneggiato televisivo dei primi Anni Settanta a cui lo scrittore aveva collaborato, storia di uno studioso inglese a caccia di un diario di Byron in una Roma esoterica e misteriosa, che aveva appassionato milioni di italiani.
Dedicato a tre scrittori sperimentali precocemente scomparsi, Enrico Filippini, Pietro Buttitta e Adriano Spatola, questo breve romanzo riflette uno sguardo presbite e straniato rispetto al mondo attuale e si regge su un ritmo sincopato che miscela tre fili narrativi. Un concerto di jazz alla Carnegy Hall, tempio della musica classica, domenica 16 gennaio 1938, «la notte che la musica scoprì l'America»; un vecchio scrittore costretto a lasciare la casa in cui abita, un antico palazzo del '500, e a trasferirsi presso il figlio; i passi che rimbombano sulla testa del vecchio scrittore, un ridondante TUM TUM che proviene dalla soffitta e inquieta il lettore più ancora del personaggio.
Don Ciccì, cugino dello scrittore, quella notte aveva diciott'anni ed era lì ad applaudire lo swing di Benny Goodman al clarinetto e Gene Krupa alla batteria. Ora, ottantaseienne boss molisano in pensione, gli manda una copia di due cd, uno con la registrazione del concerto e l'altro con i soli applausi. Intanto lo scrittore sente dei passi camminare nella soffitta disabitata, che all'inizio del Novecento era occupata dalla scuola di danza di Marina Petrova, prima ballerina del Teatro Comunale di Bologna. È convinto che quei passi appartengano a Vittorini, il suo maestro, di cui aveva letto da ragazzo Conversazione in Sicilia, vinto alla lotteria dal padre tipografo, che considerava il libro «prima di tutto un fatto visivo, una questione di occhio. Doveva piacere all'occhio. Doveva esserci un equilibrio ideale e concreto fra bianco e nero, fra spazi bianchi e neri blocchi di scrittura. Fra pagine e righe».
Nella sua biblioteca ci sono duemila libri, ma il figlio, che lo ospita in una stanza a casa sua, gli impone di sceglierne cinquanta, gli altri dovrà sistemarli nelle scatole e portarli in soffitta. Una scelta difficile, «come scegliere una donna dall'harem», semplificata se si decide di selezionarne uno per autore, tanto «c'è chi con uno ricopiandolo ci campa una vita».
D'Agata sa che in letteratura non conta la trama, ma il ritmo, e culla il lettore con quel ridondante TUM TUM verso un finale aperto. Chi si nasconde nella soffitta? Che differenza c'è tra i vivi e i morti, tra i libri e gli esseri umani, tra i giovani e i vecchi («Non è che i giovani sono invecchiati e io non me ne sono accorto?»)?
Massimo Romano, Se in soffitta passeggia Elio Vittorini. Un vecchio scrittore, il suo maestro, 50 preziosi libri, «Tuttolibri», 21 aprile 2007.

Autore di lungo corso, il bolognese (di origine molisana) Giuseppe D’Agata ha alle spalle successi di narrativa popolare che tutti ricordano. Basti citare negli anni ’60 Il medico della mutua, che divenne un film di Luigi Zampa, con Alberto Sordi, campione d’incasso nella stagione 1968-’69, e Il segno del comando, sceneggiato televisivo di genere mistery con Ugo Pagliai, quasi un archetipo al tempo della tivù bièn-faite. Eppure nel suo lungo romanzeggiare – pensiamo a titoli quali Il circolo Otes, L’esercito di Scipione, Primo il corpo, La cornetta d’argento, Il merciaio di Cracovia, America oh kei, Mother Rita, Il ritorno dei Templari, Memow – D’Agata ha mirato costantemente a smarcarsi dai facili posizionamenti, oscillando tra la sua vena di story-teller e una natura di scrittore sottile e pensoso, capace di disimpegnarsi con eguale destrezza sia sul terreno della fiction sia su quella della meta-fiction. Paradigmatico al riguardo il suo penultimo libro, I ragazzi del coprifuoco, del 2005, dove l’impianto memoriale basato sui propri ricordi di giovanissimo partigiano nelle file della Brigata Matteotti SAP rampolla a partire dall’incontro in ospedale col suo vecchio comandante della Resistenza, che ivi giace ormai morente. E il cortocircuito tra il presente e il passato fornisce l’occasione per un bilancio esistenziale in chiaroscuro, dove l’energia sorgiva, ferocemente felice, per dirla con un ossimoro, dei tempi della guerra civile, si è dissolta in una contemporaneità faticosa e compromissoria, dove nulla più persiste delle antiche speranze, ciò che rende ancora più struggente e doloroso come un morso l’atto del rammemorare una giovinezza in cui la scoperta della coscienza politica e civile per la liberazione dal nazi-fascismo andava di pari passo con la liberatoria scoperta del new sound della musica jazz.
Ecco, il jazz. D’Agata da ragazzo è stato un buon batterista jazz (nell’orchestra felsinea del circolo Elf). E la passione per la musica degli afroamericani non gli è mai, fortunatamente, passata. Di più, pur approdato ai suoi attuali ottant’anni, non ha smarrito il senso del ritmo. Ne è una prova smagliante quest’ultimo romanzo breve o racconto lungo, I passi sulla testa. Che è costruito esattamente come un pezzo jazz. Indicati i temi di fondo, il libro procede per successive variazioni, per brillanti improvvisazioni, tutte concise e spumeggianti, come seguissero gli estri estemporanei dell’autore-esecutore, che ha in testa sempre i ritmi giusti, i tempi appropriati, i beats metronomici ora in battere ora in levare. Come se la scrittura fosse, anche dal punto di vista grafico, un prolungato, ubriacante assolo percussivo con le bacchette che scapricciano dal timpano al rullante, dai tom ai piatti, al charleston. Sinceramente non rammento, negli ultimi decenni, un libro italiano capace di svolgersi secondo una simile, tanto indiavolata quanto squisita, partitura ritmica.
Qualche critico ha parlato di “ritorno dello sperimentalismo”, avendo probabilmente lui distolto per anni lo sguardo da qualsivoglia creazione letteraria fuori dagli standard omologati del mercato. Però sicuramente per D’Agata la ‘jazzizzazione’ della scrittura gli ha consentito un esperimento di energizzazione e di emancipazione da vincoli e schemi precostituiti che lo ha condotto ad una sorta di stato di grazia compositivo, di invidiabile e contagiosa freschezza poetica. Esperimento in cui la vicenda di un vecchio autore costretto a traslocare e quindi a fare una drastica selezione tra i libri da portarsi dietro nella casa del figlio, si intreccia con l’evocazione della nottata del 16 gennaio del 1938, la nottata in cui il clarinettista Benny Goodman e il drummer Gene Krupa fecero rimbombare le loro note musicali sotto la volta della sala della Carnegie Hall di New York, e l’America quella sera scoprì lo swing.
Quella notte s’immagina che un cugino alla lontana dello scrittore, uno diventato un capetto della mafia, sedesse tra il pubblico e assistesse alla nascita della Swing Era. Questo cugino possedeva due dischi: quello della registrazione del concerto e quello dove erano incisi i soli applausi del pubblico, probabilmente per rivendicare il legittimo orgoglio da paisà di essere stato là: tra quelle mani plaudenti ci sono pure le mie. Lo scrittore possiede ora questi dischi e i loro suoni-rumori dialogano nottetempo con i “Tum Tum” (e Tuc-Tuc e Tup-Tup) dei passi che provengono da un appartamento disabitato al piano superiore. Chi è il fantasma che si agita, trepesta e danza come una ballerina russa sulla testa del protagonista? Quel “Tum Tum” ossessivo che rimanda allo “Zang Tumb Tumb” del poemetto onomatopeico e parolibero di Marinetti, annuncia una nuova era Futurista-futuribile o ci dice semplicemente che abbiamo un grande futuro dietro le spalle?
Mentre vengono via via rimasticati e ruminati sentimenti e dissentimenti letterari, pensieri ora grati ora malmostosi oscillando tra Vittorini e Arpino, Gadda e Pasolini, Moravia e Bassani, Pavese e Pratolini, Fenoglio e Calvino, Comisso e Volponi etc. (praticamente il Parnaso novecentesco italico), i nodi e i misteri naturalmente non si sciolgono, perché in fondo non c’è bisogno di sapere e di capire tutto. Basta saper restare in ascolto, riascoltare quella musica che ha fatto sognare gli Stati Uniti alla fine degli anni ’30, o riascoltare la musica della prosa d’agatiana che riesce oggi ad accendere l’immaginazione e l’immaginario del lettore. E dunque, come il concerto della band di Krupa e Goodman si concluse con degli esultanti ‘encore, encore’, così noi vorremmo adesso indirizzare al caro Giuseppe (per gli amici Pippo) un ideale: bene, bravo, bis.
Marco Palladini, «Reti di Dedalus», luglio 2007.

 

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