Il merciaio di Cracovia
(The Peddler of Cracow)
Sperling & Kupfer, Milano, 1981, pp. 341 (sotto lo pseudonimo di Derek Moore)
Una avvenente segretaria d’ambasciata. Un aristocratico polacco, specialista nel tiro… al piattello. Un diplomatico, addetto ai rapporti commerciali, in realtà incaricato di missioni… particolari. Un “pezzo da novanta” dello spionaggio internazionale, ricercato dai più importanti servizi segreti. Un “missionario di morte”, di cui nessuno conosce con esattezza la data di nascita, mentre si sa che ha preso parte, rimanendo ferito soprattutto nell’anima, ai grandi eventi che hanno sconvolto la storia del nostro secolo. Questi e altri personaggi, non meno essenziali dei pezzi del gioco danno vita a una storia crudele e ricca di colpi di scena. Muovendosi da Atene e da Vienna, da Mosca e da Washington, diversi destini si incontrano a Roma, la città che sotto il suo volto affascinante si rivela il luogo di uno straordinario intrigo di morte. Scandita sul ritmo incalzante delle ore e dei minuti, la vicenda si snoda con cronometrica e spietata precisione nel giro di pochi giorni, quando alcuni uomini con licenza di uccidere decidono di realizzare un’impresa giudicata impossibile, mettendo in gioco con fredda determinazione la loro vita e quella di chi è necessario al successo dell’operazione: nemico o non nemico, colpevole o innocente. L’antico e suggestivo mito della sfida fra Davide e Golia rivive in un episodio, di cui in questo romanzo viene rivelato lo stretto segreto, che ha fortemente influenzato le relazioni sovietico-americane, contribuendo a farle precipitare nella nuova attuale guerra fredda.
(dalla seconda e quarta di copertina)
Note: dal romanzo è stato tratto un film e, successivamente, uno sceneggiato per la tv, entrambi per la regia di Giorgio Bontempi (vd. scheda).
Parla l’autore
Il caso del romanzo di Liaty Pisani, pubblicato con successo in tedesco ed inedito da noi per lo scetticismo dell'editore italiano (ne ha parlato Cesare Medail nel "Corriere" di martedì), credo che debba far riflettere sui pregiudizi e sulla scarsa duttilità dei nostri consulenti editoriali, anche perché non è isolato. L'editore Weitbrecht di Stoccarda pubblica nel 1988 il mio romanzo "mistery" "Il segno del comando" (in tedesco "Das Medaillon der Macht"). Poi mi "commissiona" un nuovo "mistery", dandomi un buon anticipo. A quel punto la vicenda è identica a quella della Pisani. Quando il manoscritto è pronto, lo mando anche al mio editore di allora (Rusconi), ma non riesco ad avere una risposta decisiva. Il libro esce in Germania nel 1992 e funziona, tanto che nel '95, con due edizioni in tre mesi, viene ristampato nei tascabili Goldmann. Stiamo parlando di letteratura di "genere" (mistery, fantasy, thriller, spystory e dintorni), un territorio a quanto pare inaccessibile agli scrittori italiani; perciò, a proposito dei bestseller spionistici garantiti dal marchio Doc Usa, mi ha colpito l'osservazione di Sebastiano Vassalli sul "Corriere" del 28 febbraio: "(essi) vengono dagli Usa perché gli Usa sono il centro del mondo". Insomma, il successo di autori come Ken Follett è il frutto di un'egemonia economica e culturale, puntellata – aggiungo io – da una barriera protezionistica pressoché invalicabile. Lo testimonia un episodio significativo. Nel 1980 due big della nostra editoria di allora, il famoso agente letterario Erich Linder e Tiziano Barbieri, titolare della Sperling & Kupfer, ebbero per le mani "Il merciaio di Cracovia", una spystory scritta da un italiano. I due si accordarono per pubblicarlo, ma non solo: si misero in testa che quel romanzo avrebbe di sicuro trovato un mercato in America. La traduzione venne affidata a un noto italianista americano che vive in Toscana. Il manoscritto in inglese approdò negli Usa, ma le risposte degli editori furono negative. Uno brutalmente disse: "Il libro è buono, ma noi non compriamo queste storie, le esportiamo". La Sperling lo pubblicò l'anno dopo ed il romanzo ebbe tre ristampe. Forse perché l'autore, memore della dura "lezione americana", preferì nascondersi dietro lo pseudonimo Derek Moore. Oggi posso rivelarlo, e forse il lettore l'avrà capito: quell'autore sono io. Ma si sa che gli italiani non sono capaci di scrivere storie e trame complesse.
Giuseppe D'Agata, Travestito da inglese per pubblicare in Italia, «Corriere della Sera», 7 marzo 1997.
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