Il medico della mutua

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Ho bisogno di vedere da vicino i mutuati. Perciò vado all'uscita delle fabbriche, degli uffici, e li osservo, sia pure di sfuggita, perché hanno tutti fretta di allontanarsi, col tram, con i motorini e le biciclette.

È difficile spiegarsi come quegli uomini e quelle donne, che hanno l'apparenza di gente in salute, possano trasformarsi in mutuati attivi; come sappiano, con tutta la fretta che muove i loro passi, adattarsi a fare delle lunghissime anticamere negli ambulatori. Deve essere più che mai forte il potere del medico. A fare un confronto col passato, con ciò che sappiamo dei medici di una volta, pare che la potenza del medico si sia accresciuta, grazie alla mutualità. La figura del medico ha perduto forse un certo tipo di suggestione esteriore, ma si è senz'altro arricchita di un piglio amministrativo-assistenziale che è capace di trasformare i lavoratori in mutuati.

Malgrado amarezze e difficoltà, sono soddisfatto di essere un medico.

E dire che in un primo tempo, quando ancora facevo il liceo, avrei voluto studiare legge (una laurea in legge serve sempre, mi dicevo), ed è stata mia madre a farmi scegliere medicina, cioè una professione nobile e aperta ai buoni guadagni (mia madre studia da molto tempo gli elenchi dettagliati delle denunce dei redditi per le imposte: lì ha scoperto che molti medici guadagnano più di tanti piccoli e medi industriali). Devo riconoscere che è stata una scelta felice, anche perché mi sembra di sentire germogliare dentro di me la vocazione. Ed è sempre una bella cosa non dipendere da uno, fregarsene della politica e dei partiti, avere una clientela fedele, che ti ammira e ti rispetta.

“Non ti ammirano, e ti rispettano fino a un certo punto," dice Magni, "ma non possono fare a meno di te. Sei come un vizio per loro. Guai se non possono venire a farsi prescrivere la medicina: gente che se qualcuno fuori gli dice che è malata, si becca una querela. E non è che facciamo nemmeno della medicina preventiva: non ne vorrebbero sapere."

Sempre per vedere i mutuati da vicino, Magni mi permette di andarlo a trovare nel suo ambulatorio. Devo imparare un po' di tecnica mutualistica pratica.

All'apparenza i mutuati sembrano persone normali, con facce, atteggiamenti e modo di vestire del tutto normali. Quello che li distingue, che li rende mutuati, è un carattere interno, non tanto una specifica malattia, quanto una qualità particolare che gli viene dall'avere in tasca o nella borsa il libretto, in regola, della mutua.

Questo libretto rappresenta il punto d'incontro fra mutuato e medico: e non è questione di visita, di malattia, di cura; il mutuato vuole la ricetta e il medico vuole segnare la visita: questo significa il libretto della mutua.

"Anche se gli dici che non ha niente, scrivigli sempre una medicina. Se non lo fai, perdi quel mutuato."

Il mutuato sa che il libretto della mutua è qualcosa di molto prezioso per il medico, e quando la sua fame di medicine si fa inestinguibile è capace anche di usarlo come uno strumento di ricatto: lo sventola allora di fronte alle mani dei medici, centinaia di mani tese ad afferrarlo. Per regolamento il libretto deve rimanere in possesso del mutuato, ma il sogno di ogni medico è di avere in una cassaforte, al sicuro, pile e pile di libretti, migliaia di libretti di grossi nuclei familiari composti di vecchi, donne e bambini.

Il rito della prestazione mutualistica si compie negli ambulatori, e raggiunge la massima perfezione quando le sale d'attesa, le anticamere sono piene, con i mutuati stipati lungo le pareti e anche in piedi nel mezzo, mentre altri bivaccano fuori della porta. In queste condizioni il mutuato diventa mutuato al più alto grado, e il medico più che mai un medico della mutua: si realizza la situazione ideale dell'assistenza generica mutualistica.

II mutuato aspetta per ore di essere ricevuto (e più lunga è l'attesa, più valorizzata è la prestazione), e un non mutuato che passa si domanda cosa venga distribuito gratis dietro quella porta.

È piacevole esercitare così, senza problemi di diagnosi, di cura, eccetera, cose riservate eventualmente agli specialisti, agli ospedalieri, ai clinici, collettivizzando la responsabilità dei casi che tendono a spostarsi dagli schemi normali di malattia: la responsabilità del generico è anche oggettivamente poca, perché sempre più ristretto è il tempo che l'insieme dei mutuati lascia al singolo mutuato. E il bello è che lo sanno anche i mutuati del medico bravo, che perché è bravo ha tanti mutuati: infatti finiscono giustamente col non pretendere di guarire. In fondo, guarire del tutto, essere in uno stato di perfetta salute, significa non usufruire del libretto, non accedere ad un diritto, non avere la possi-bilità di partecipare al rito suggestivo dell'assistenza: significa anche e soprattutto rimanere senza una scusante che ha delle sacrosante giustificazioni, e dover affrontare per intero i grossi problemi che affliggono l'esistenza. Non c'è alcuna convenienza ad essere completamente sani: qualche disturbo di tipo cronico rappresenta un ottimo antidoto contro l'angoscia e il suicidio.

La meccanica della prestazione ha un andamento fatale e inesorabile. La visita, la cura? Chi si può permettere di fermare la marcia di una catena di montaggio per occuparsi di un singolo, insignificante pezzo, che è uguale a tutti gli altri? Si prende il pezzo anomalo e lo si scarta: i pezzi che incalzano non possono aspettare. L'importante è che il mutuato non muoia, che rappresenta un piccolo lutto, una perdita per tutti i medici mutualisti; se però muore, se proprio è destino che debba morire, pazienza. Purché la catena non si fermi.

L'infermiera fa entrare il mutuato, che si presenta con il berretto in una mano e il libretto nell'altra.

"Come va?" gli domanda Magni. Del libretto s'è impadronita l'infermiera: lo apre alla pagina giusta i davanti agli occhi di Magni, che si mette a copiare i dati anagrafici sul ricettario.

"Un po' meglio, solo che sento ancora un bruci orino dopo mangiato."

"Sempre dopo mangiato?"

"Sì."

Magni finisce di scrivere, stacca la ricetta e la consegna al mutuato. "Prendi queste compresse. Ne fai sciogliere una in bocca quando avverti il bruciore. Ciao.”

II mutuato esce. Avanti subito un altro, senza che neppure la porta si richiuda alle spalle del precedente. E così via, al ritmo di quattro minuti per visita.

II nono mutuato richiede qualche minuto di più, perché deve essere visitato. È uno che non si è fatto vedere da parecchio tempo.

"Quando viene uno che è stato assente un pezzo, fai vedere che lo vuoi visitare. Previeni la sua eventuale intenzione di cambiare medico, e molte volte riesci a farlo venire più spesso," mi dice Magni, mentre il mutuato si scopre in fretta il dorso. L'infermiera bada a tener fermo il groppo di maglia camicia e pullover, e Magni ascolta col fonendoscopio applicato al pezzo di torace che ha a disposizione. "Respira forte. Ancora. È una bronchite."

II mutuato infila alla meglio la camicia dentro i calzoni, afferra la ricetta e se ne va soddisfatto.

“D'inverno, quando sono più vestiti, perdi più tempo," dico.

Magni deve rispondere al telefono. Combina una visita domiciliare, anche perché il caso non si presta a fare una diagnosi per telefono.

"Devi imparare a far le diagnosi e a dettare la cura per telefono, perché quando hai molto lavoro le visite domiciliari sono pressappoco una perdita. Quando hai stabilito il tuo standard economico giornaliero, devi cercare di trasformare una visita domiciliare in due visite ambulatoriali. Per nemmeno seicento lire che prendi dalla mutua, a domicilio, devi perdere un bel po' di tempo, consumare benzina e visitare per forza il mutuato.

"Duecentottantacinque lire per due: hai ragione, sarebbe meglio non farle le domiciliari."

Magni scuote il capo: "Non è così semplice. lo le visite domiciliari che non riesco a risolvere per telefono, le faccio tutte, anche bestemmiando, e cerco di guarirli, di curarli il meglio possibile. Non capisci? Le visite domiciliari le considero pubblicità. La nostra è un'impresa privata, e se vuoi lavorare in modo razionale devi destinare qualcosa alla pubblicità: le leggi di mercato te lo impongono."

Annuisco: Magni è veramente un maestro. È a lui che devo guardare, non al Primario.

Lanciato, Magni continua: "Le visite domiciliari considerale pubblicità. Ho educato tutti a venire in ambulatorio, perché è più comodo e mi rende di più. È una pretesa che ragioni di prestigio professionale possono ben giustificare. Dico: andate dal barbiere o dalla parrucchiera? Bene, potete venire anche in ambulatorio, da un medico. Chiaro? Chi non può proprio venire, vuol dire che è ammalato sul serio. Ci vado e vedo di farlo guarire alla svelta. Così raggiungo due scopi: limito le visite domicili ari, e i buoni risultati mi fanno pubblicità. E se si tratta di un titolare di libretto che ha diritto alla indennità giornaliera di malattia, accelerando la guarigione acquisisco una benemerenza presso la mutua. La malattia domiciliare di un lavoratore non giova a nessuno: né al lavoratore, né alla mutua, né al datore di lavoro, e poco al medico. Sono le malattie ambulatoriali che ti danno da guadagnare. Nella maggior parte dei casi devi solo ripetere delle ricette."

Ringrazio Magni della chiara lezione. Ma mi ha fatto sorgere una perplessità. "Allora, bisogna anche saper curare la gente."

Magni riflette, poi risponde: "Non è tanto difficile, in pratica. Se ci pensi bene, quali sono i casi che hanno quasi tutte le probabilità di risolversi in modo brillante?"

"I fatti febbrili. Le infiammazioni."

"E sono proprio la grande maggioranza delle chiamate a domicilio. Tu dài gli antibiotici, e quasi sempre fai un figurone. Il paziente guarisce e ti ringrazia. Naturalmente, per mettere in risalto la tua opera e la tua competenza, vedi di scegliere un antibiotico il cui nome non sia troppo conosciuto dal grosso pubblico. Anche se penicillina e strepto vanno ancora molto bene, adoperale pochissimo, e mai se si tratta di paganti: sono troppo comuni."

Chiedo di poter prendere degli appunti. Pur lusingato, Magni fa cenno di no: le cose fondamentali oramai me le ha dette. Fra una frase e l'altra, ha sbrigato una trentina di mutuati e un paio di paganti. I paganti sono stati debitamente visitati, ed entrambi sono usciti con lunghe e costose ricette.

"Ricette da Primario ospedaliero o da docente. I paganti li tieni vincolati in questo modo. Si sentirebbero umiliati se dovessero pagare poco il medico e le medicine. Si sentirebbero allo stesso livello degli operai. I pochi paganti che ancora esistono vengono contesi a colpi di forti onorari e di grosse ricette."

"Questo lo so, ma sono chimere per me."

Magni è d'accordo. Mi parla un poco delle classificazioni interne dei mutuati, in ragione delle varie categorie cui appartengono: lavoratori dell'industria, artigiani e commercianti (che per la generica hanno spesso una mutua volontaria), statali, eccetera, e mi spiega qualche accorgimento che è necessario adottare nei confronti degli uni e degli altri. Le disparità di trattamento sono dovute principalmente alle differenze degli onorari che ogni singolo ente mutualistico riconosce ai medici.

Ci soffermiamo sugli statali, che sono mutuati e paganti nello stesso tempo. Con costoro bisogna regolarsi caso per caso, dice Magni.

A) Visite. Se si tratta di statali che non dimostrano, almeno nei confronti del medico, di sentirsi offesi per essere trattati come dei comuni lavoratori, conviene segnare un buon numero di visite che non sono state fatte, e accettare di essere pagato con quello che l'ente rimborserà. Questi statali si possono considerare dei veri e propri mutuati.

Se si tratta di statali col decoro, statali borghesi, dovrai farti pagare un giusto onorario per le visite che hai fatto, e naturalmente rilascerai una ricevuta per un importo superiore, segnando più visite di quelle reali: nessuno – e si tratta spesso di funzionari integerrimi – rifiuterà dicendo che è una truffa. Chi appartiene a questo secondo gruppo vorrebbe essere considerato un pagante.

B) Medicine. Non fare distinzioni, perché tutti tengono al rimborso dei medicinali: perciò cerca di giustificare con una diagnosi opportuna tutti quelli che prescrivi, anche se per gli statali del secondo gruppo ti puoi permettere, sempre per dare a te e a loro più importanza, di largheggiare, ma con misura. Con misura, perché se questo tipo di assistito s'accorge che al punto in cui si trova si può considerare un pagante (spende molto, e la mutua gli rimborsa una cicca), c’è il rischio che si trasformi in un pagante del tutto e vada da un docente. Lo devi tenere in un equilibrio delicato, talvolta difficile.         

Fra questa gente molti si dilettano a leggere le enciclopedie mediche, perciò vedi di essere sempre complicato e dottrinario. Fa' in modo che la tua laurea ti distingua il più possibile dai loro diplomi e dalle loro lauree: devono sentire che sei un medico, che la tua laurea vale dieci volte più della loro, che i tuoi guadagni di libero professionista sono astronomici rispetto ai loro stipendi di statali.

Mentre medito su quello che ho appreso in fatto di tecnica mutualistica, Magni sbriga gli ultimi mutuati.

"Perché non vai a vedere anche come lavora Cacciaferri ?"

Dico che non credo che valga la pena. Magni si mostra compiaciuto della mia fedeltà. Mi spiega perché Cacciaferri è così scorbutico e stizzoso in ospedale: perché adotta una tecnica mutualistica diversa. È dolce, remissivo, servile coi mutuati, va a visitarli a domicilio anche se lo chiamano per un raffreddore: dopo questi sforzi viene a sfogarsi all'ospedale, dove non ci sono mutuati e ci sono invece dei colleghi che gli stanno sulle scatole. "Se non ci fosse la concorrenza, se fosse l'unico medico della città, sarebbe capace di trattare i mutuati a calci nel sedere."

Invece i mutuati sono sacri, penso.

"La nostra missione consiste nell'avere la pazienza di giocare al medico e agli ammalati, alla nostra età. Ma neppure dire così è giusto: guai se non avessimo gli ambulatori pieni, se non facessimo ritornare spesso i mutuati, se non si fosse creato in loro il bisogno delle medicine..."

"Mi piacerebbe tanto avere un mutuato," dico.

"Credo di averti dato una mano, oggi. Ho rispettato l’impegno del Giuramento."

Lo ringrazio a lungo; forse potrei chiedergli in prestito qualche mutuato, ma non ho il coraggio. Mentre si sta infilando si sta infilando la giacca, gli pongo una domanda a tradimento.

"E Pedrini, come se la cava?"

"Ha un sacco di mutuati, adesso," risponde soprappensiero. "Ma non ne vuol sapere: li considera una scocciatura. Vallo a capire, Pedrini..."

Dunque: Pedrini ha un sacco di mutuati, adesso. E a me hanno detto che ne ha pochissimi, giusto quelli che gli sono così affezionati che lui non ha il coraggio di respingere. Dove può aver preso di colpo un mucchio di mutuati?

Saranno senz'altro quelli di Bui. Non può averli acquistati, se non ne vuole avere, e sempre per questa ragione non può essersi dato da fare per ereditarli: avrebbe dovuto battere Magni, Cacciaferri e il gruppo affamato dei volontari. Impossibile.

Vorrei domandare a Magni. Ma preferisco non metterlo in condizione di non potermi rispondere. Ma perché nessuno vuole parlare? Significa che le cose non sono sistemate, e se non lo sono è perché Bui è ancora vivo.

Dico a Magni che sono contento che abbia tanto lavoro, e che certamente ci rimette a mantenere il posto all'ospedale, per quarantamila al mese.

"Ogni tanto penso di lasciarlo perdere, per quello che mi rende. Ma non ce la faccio: quel paio d'ore che passo nel reparto la mattina, mi danno la sensazione di essere davvero un medico."

L'infermiera se n'è già andata. Magni spegne la luce usciamo.

Ho il rimorso di non essere andato ad affacci armi al mio ambulatorio. Telefono alla padrona di casa: "È venuto qualcuno?"

"No, signor dottore. Non s'è visto nessuno."

La Salma insiste perché una sera vada al cinema con lui: gli dico che sono abituato ad andarci con Teresa, e che preferirei caso mai andare a giocare a biliardo.

"Mi serve un tuo parere su una cosa," dice La Salma. “Vedrai."

Andiamo a vedere un giallo, in prima visione. È un giorno feriale, e al cinema ci sono pochi spettatori. Ogni tanto La Salma si guarda intorno. "C'è poca gente,” commenta, e pare contrariato.

"Così mi piace stare al cinema," dico. Gli dico anche di non distrarmi, di non farmi perdere il filo: il biglietto costa salato.           

Non è un giallo interessante: mi spiego così la scarsa attenzione del mio amico. Ed è stato lui a voler venire per forza a vedere questo film. Detesto i film che richiedono molto impegno, mattoni e film francesi: vado a vedere solo gialli, western o film di guerra. Concepisco il cinema come un passatempo, però non è che non sappia distinguere un film americano da una qualsiasi boiata. Anche La Salma è per i miei stessi tipi di film.

"Poca gente. In serate come queste il cinema ci rimette."

"Colpa della televisione."

"La televisione," mormora La Salma: "Poter arrivare alla televisione..."

"Cos'hai detto?"

"Niente."

Nell'intervallo cerco di commentare il primo tempo: sono sicuro di aver già indovinato chi è l'assassino. Ma La Salma non mi ascolta, anzi vorrebbe farmi tacere. Mi pare assente, come in attesa di qualcosa.

Improvvisamente la voce dell'altoparlante riempie la sala: "Il dottor La Salma è pregato di venire al telefono."

La Salma ha ascoltato immobile.

Lo scuoto:" "Ehi, cercano te!"

"Sst."

L'altoparlante ripete: "Il dottor La Salma, il medico, è desiderato al telefono. Si tratta di un ammalato."

La Salma si alza: "Non ti muovere, aspettami. Torno subito." Lentamente percorre il corridoio centrale. I mutuati lo guardano, e lui si offre, eretto e sicuro, alla loro curiosità. Vedo che si scambiano dei commenti, additandolo. Scompare dietro i tendoni verdi, in fondo: il telefono è nell'atrio, alla cassa.

Incomincia il secondo tempo: dovrò raccontare a La Salma il pezzo che perde. Poveraccio, che scocciatura. Ha così pochi mutuati, e lo raggiungono anche al cinema: perché si tratta senz'altro di una chiamata per una visita urgente. Comunque, si guadagna almeno il prezzo del biglietto.

Sarà bene che a suo tempo prenda anch'io l'abitudine di lasciar detto a mia madre dove mi può rintracciare, quando la sera vado in un posto prestabilito: i mutuati devono ricavare una impressione ottima da un accorgimento del genere. Il loro medico si diverte – è umano che lo faccia – ma non si dimentica di loro neppure quando si diverte: neppure quando è con una donna (devo dirlo a Teresa: certamente capirà cosa significa far l'amore con un medico).

Dopo qualche minuto La Salma torna al suo posto. "Allora?"

"Niente. Già fatto."

"Non ci sei andato?"

"Taci. Era mia cugina."

"Qualcuno dei suoi sta male?"

"No. Eravamo d'accordo che mi chiamasse."

"Come, l'hai fatto apposta?"

"Perché, cosa c'è di male? È pubblicità."

Do un'occhiata al film.

"Non ti va l'idea?" mi fa La Salma. "A me sembra buona: e non costa niente."

Diavolo di un marocchino.

"Peccato che c'è poca gente. L'idea m'è venuta l'altro giorno, quando sono andato a trovare un collega. L'importante è far circolare il nome, diceva lui."

"Ma come ha fatto tua cugina a sapere quando c'era l’intervallo?"

"Non lo sapeva. Ha chiesto lei di farmi chiamare durante l'intervallo. Di fronte alle disgrazie tutti sono gentili."

Per un poco guardiamo il film, che sta migliorando: pare infatti che l'assassino non sia chi pensavo io. Ad un certo punto La Salma riattacca: "Forse ho commesso un errore. Che stupido."

"Piantala."

"Noi non siamo medici da prima visione. La nostra clientela frequenta i cinema di seconda visione. Questi qui sono quasi tutti paganti, ci scommetterei."

Il ragionamento è abbastanza logico, lo ammetto.

"La prossima volta organizzerò la pubblicità in seconda visione, senz'altro."

Certo che mia madre e La Salma insieme andrebbero molto lontano. Arriverebbero dove vogliono.

(pp. 92-103)

 

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