Il dottoreIl caffè l'avevamo preso, poi visto che la conversazione non stava in piedi, Tinazzi era andato a chiudersi nel suo sgabuzzino illuminato da una lampadina rossa e si era messo a sviluppare fotografie. Era allegro, fischiettava, il vecchio. Evidentemente gli affari gli andavano bene. lo invece quella sera ero teso, con la luna per traverso. Poco prima avevo discusso, alzando la voce, con mio fratello. Ancora una volta mi ero beccato l'accusa di essere un velleitario, di non sapere fare una seria analisi politica, di non avere una coscienza di classe perché non appartenevo a nessuna classe, non ero né un operaio né un borghese. Ero un uomo, avevo risposto scaldandomi forte, un uomo che non ce la faceva più a sopportare una cappa di piombo di menzogne, sopraffazioni e violenze. Era necessario e urgente buttarsi in qualche cosa – ma mi guardai bene dal dire cosa mi proponevo di fare con i miei amici – altro che eseguire delle belle analisi politiche che altro non erano che vane esercitazioni dialettiche. Era urgente agire perché la Germania avrebbe vinto la guerra e di conseguenza anche il nostro regime si sarebbe ancor più rafforzato. Mio fratello aveva gridato che la Germania non sarebbe mai riuscita a battere l'Inghilterra e la Francia, che avevano dalla loro il sostegno economico dell'America. Poi s'era calmato e aveva cercato di dare una spiegazione al mio stato d'animo: in fondo scaricavo sul terreno della politica le mie disavventure, le mie frustrazioni. Ero stato seriamente ammalato e, considerata anche la mia età, faticavo a reinserirmi nella vita e a ricostituirmi un avvenire accettabile. E improvvisamente aveva confidato a me e alla moglie un segreto che probabilmente non riusciva più a tenere solo per sé. Da qualche tempo partecipava a delle riunioni clandestine di operai comunisti. Valutavano le possibilità reali di lottare contro il carovita che si era fatto insostenibile, e contavano, mediante un paziente e capillare lavoro di persuasione, di organizzare delle manifestazioni di protesta e addirittura uno sciopero. In qualità di fratello maggiore non lo avevo biasimato, perché rispettavo le sue idee, ma gli avevo raccomandato di non commettere imprudenze. Marisa si era mantenuta calma, non aveva fatto alcun commento, e col suo silenzio aveva mostrato di apprezzare l'iniziativa del marito. Alla sua maniera aveva dato prova che di fronte alla politica non era neutrale o assente come lo erano tante donne di casa. Tinazzi venne a domandarmi se era ancora il caso di aspettare. "Verrà," dissi. "Vedrai che verrà." Quando bussarono andai ad aprire io. Era Sandra, che respirava con affanno per le scale che evidentemente aveva salito in fretta. L'alito sapeva fortemente di alcool ed era chiaro che si reggeva male sulle gambe: per puntellarsi si serviva dell'ombrello come di un bastone. "È tanto che giro. Ho anche sbagliato scala." Tinazzi la valutò con occhio professionale e, soddisfatto, la salutò. "Buona sera, signorina." Sandra entrò e non considerò la mano che il vecchio le porgeva. Sembrava soprattutto attratta dalla macchina fotografica piazzata al centro dello studio. Poi guardò il giaciglio coperto dalla pelle di cammello e si rivolse a me sbalordita. "Ah, ma allora è vero." "Certo. Te l'avevo detto. Perché ti sei ubriacata?" "Per farmi coraggio. Credevo che mi avresti fatto trovare un signore, un cliente con molta grana. Invece... Dunque io dovrei fare l'amore con te, mentre questo qui," accennò a Tinazzi senza guardarlo, "questo qui ci fotografa." "Sì." "Pino, non è vero. È uno scherzo, una messa in scena." Tinazzi, seccato, intervenne dicendomi: "Non le hai spiegato cosa deve fare?" Alzai la voce. "Certo che lo sa. Chi credi che sia? È una che va a far marchette in un albergo. È una puttana." "E allora, che cosa vuole?" disse Tinazzi. Sandra lo ignorò. Mi si avvicinò e all'improvviso si mise a piangere forte, coprendosi la faccia con le mani. "Sei diventato uno sporcaccione," disse fra i singhiozzi. "Tu, che eri così per bene. Proprio tu, Pino. Come hai potuto?" La presi per le spalle e cercai di scuoterla. "Perché?" continuò. "Perché non vai piuttosto a chiedere l'elemosina?" "Oppure mi faccio mantenere da te." "Se io faccio la prostituta è normale. Ma queste schifose fotografie vanno nelle scuole, nelle mani dei bambini. Tu, abbassarti così." "Ma chi sono io? Che cosa valgo? Niente." "Adesso sì, non vali niente. Mi fai pena." Il ceffone che le mollai la scaraventò per terra. Smise di piangere e si rialzò con fatica. Si chinò a raccogliere la borsetta e l'ombrello. Lentamente raggiunse la porta. Se ne andò senza voltarsi. Guardai la porta quando se la richiuse alle spalle. Mi sentivo le lacrime traboccare dagli occhi e non volevo farmi vedere da Tinazzi. Sentii che borbottava. "Va là che ci sono dei bei tipi a questo mondo. Speriamo che non ci vada a denunciare." "Non ci andrà, non aver paura." "Ma chi è? Dove l'hai trovata?" "Niente. Mi sono sbagliato." "Dev'essere matta. Gliel'avrai pur detto che la pagavo bene." Aprii la porta. "Ciao, Tinazzi." "Ciao. Non farci mica caso a quello che ha detto." La foschia umida che invadeva le strade mi procurò un certo sollievo. Vidi Vincenzi fra un gruppo di signori al centro del salone grande del caffè Cristallo. Stava parlando esuberante, a testa bassa come un toro, e indossava una vistosa e ricercata giacca col davanti di camoscio. lo avevo un vecchio impermeabile, un indumento che amavo molto forse perché il mio modello ideale di uomo d'azione – certamente ricavato da qualche film – era rappresentato da un uomo con l'impermeabile. Quando Vincenzi si accorse che c'ero mi salutò con la mano, si scusò con gli altri e mi venne vicino. Disse che andava tutto bene e che per non destare sospetti nei suoi amici sarebbe stato meglio che fossi andato di là ad aspettarlo:con gli occhi mi indicò la porta di una saletta, di fianco al bancone del bar. Ce l'avevo con Vincenzi: perfino esteriormente, nei suoi modi, nella sua voce, nei suoi occhi, perfino nei suoi vestiti, c'era qualcosa che non mi andava. Tra quello che era successo prima e adesso con la sera piovosa e i manifestini, i sospetti e la saletta appartata, mi pareva di vivere in una atmosfera grottesca di intrigo e di mistero. Vincenzi recitava bene la sua parte di capo setta. Avevo voglia di gridare a quei signori suoi amici che eravamo dei buffoni, che eravamo venuti al Cristallo per fare migliore il mondo, e stringevo i pugni dentro le tasche. Forse era meglio fare a meno di Vincenzi, fare a meno di chiunque. Non mi andava questo mondo? Poco male, ce n'era un altro che potevo benissimo raggiungere da solo, senza troppe complicazioni. Ero carico di rancore anche verso i poveri, perché non potevo rivolgermi a loro, non mi avrebbero capito e avrebbero cercato di convincermi a evadere come loro nell'immaginazione o a condividere la loro lotta fatta di pazienza e di sacrificio. Era possibile adattarsi a camminare con la natura, col progresso, con la storia, con passi che avevano la tragica lentezza dei secoli? Mi tornava in mente quello che avevo visto in casa di Benetti: quella era la lotta della povera gente. Non c'erano più i mobili? Coraggio, un vecchio cassettone poteva sostituirli. E avanti. Vincenzi faceva il re, il gallo fra i suoi amici. Giampiero non era nella saletta: forse la scusa dei sospetti Vincenzi l'aveva trovata per non rimanere solo con me. Certo l'antipatia fra noi doveva essere reciproca. Perché non me ne tornavo a casa? Cosa c'era da aspettarsi dai manifestini di Vincenzi? E perché non mi passava questa smania di cambiare il mondo? In ogni specchio della saletta c'era la mia faccia. Mi misi a sedere e chinai il capo fra le mani appoggiandomi sulla tavola. Eppure in qualche angolo del mondo c'era chi tentava qualcosa da solo. C'era chi uccideva un tiranno, chi lanciava una bomba. C'era anche chi diffondeva dei manifestini. L'avevo fatto anch'io, ma la Spagna repubblicana aveva perduto. Eppure mirando molto in alto doveva essere possibile cambiare qualcosa per tutti. Per un uomo solo era la sola possibilità, era la prova che qualcosa un uomo, uno solo, valeva ancora. Come quando nel mondo era apparso il primo uomo e aveva vinto. Avvertivo il brusio di là, il tinnire dei bicchieri e delle tazze. Forse la gente non sentiva come me dei colpi che picchiavano dentro il cervello. O fingeva di non sentire. No, io non ero meglio degli altri, io volevo soltanto valere anche da solo, volevo stare al mondo senza aspettare la provvidenza e senza più inghiottire lacrime. Come c'ero rimasto male quando avevo var cato l'uscita del sanatorio. "Cosa fai, dormi?" disse la voce di Giampiero. Alzai il capo, anche il mio amico era negli specchi della saletta. Mi chiese se avevo già visto i manifestini. Andò a raccogliere una borsa di pelle ai piedi di un soprabito a righe che era appeso al muro in un angolo. Cera anche un cappello impermeabile, e quella roba doveva essere di Vincenzi. Bella prudenza. Dentro la borsa c'erano i manifestini, e Giampiero li depose sulla tavola togliendoli dalla cartaccia che li involgeva. Ne prese uno e me lo porse. Era piccolo, lindo, di carta sottile ma buona, ancora odoroso di petrolio. "Va bene, non ti pare?" disse Giampiero compiaciuto che la scritta, nera e nitida, potesse colpire e fare effetto. Dissi che erano belli, cose di lusso, e voltandone qualcuno vidi che dietro avevano, lungo tutto il bordo, una fascia di gomma per francobolli. Giampiero accolse con ammirazione la mia scoperta. Sorrideva soddisfatto. Qualcosa di concreto c'era, ed era Il sulla tavola, proprio davanti a noi. In pochi giorni qualcosa eravamo riusciti a combinarla: questo stava scritto in faccia a Giampiero che mi guardava. Pensai che a quel punto era meglio tirare avanti, dopo tutto Vincenzi aveva speso dei soldi, perciò dissi a Giampiero che dovevamo sbrigarci a diffonderli. Mi chiesi se EIsa sapeva dei manifestini e se la cosa poteva apparirle importante. Chi sa, le donne di solito si lasciavano imbrogliare con poco, ed era facile con loro passare per uomini eccezionali. Ma EIsa non era certamente una donna come le altre.L'idea dei manifestini non mi pareva una gran cosa perché, pur non ignorando che diffonderli era rischioso, non provavo un senso di paura, ma quasi di vergogna: e poi non mi pareva una gran cosa neanche averli attaccati nel '37. Finalmente entrò Vincenzi. Sbuffò dicendo che gli amici non volevano lasciarlo, l’avevano trattenuto perché non lo vedevano mai. Tirò fuori dalla borsa due scatole e spiegò che lì c'erano delle spugne per bagnare la colla. Perfetto. Tutto studiato e previsto. I manifestini erano grandi poco meno di una tasca di giacca e Vincenzi incominciò a spartirli. Come prima uscita era meglio andare tutti e tre insieme. lo e Giamplero intascammo la nostra parte, Vincenzi la sua e una scatola con la spugna. Il resto dei manifestini e l'altra scatola furono riposti nella borsa. Giampiero aveva un'aria spavalda e sicura, Vincenzi apriva e chiudeva la borsa, si toccava le tasche e aveva le guance arrossate. Chiese se avevamo sete e noi facemmo segno di no. Secondo Giampiero era meglio portare con noi anche la borsa io dissi che non era pesante e potevamo prenderla. Per un po' facemmo gesti a vuoto, infine Vincenzi si cacciò in testa il cappello, ne abbassò la tesa e si infilò il soprabito. Respirava pesantemente, più del solito, e si guardò in uno specchio mentre Giampiero si pettinava. Anch'io mi guardai e mi vidi la faccia gialla: ma non era paura, era la luce. Ci trovammo intorno alla tavola e Vincenzi disse di fare attenzione. Qualunque cosa ci fosse accaduta, nessuno di noi doveva assolutamente rivelare il nome degli altri due. Attraversando il piazzale davanti al Cristallo Vincenzi disse che il tempo era propizio, però malgrado l'insistere della pioggerella mi pareva che di gente in giro ce ne fosse ugualmente parecchia. Giampiero badava a sostenersi le tasche che gli pesavano come due bisacce. Sotto un portico ci fermammo perché Giampiero disse che la carta gli si bagnava e rischiava di appiccicarsi tutta insieme. Facemmo gruppo presso un colonna: Giampiero mise nella borsa parte dei suoi manifestini, mentre Vincenzi guardava in su e in giù e imprecava contro la disorganizzazione. Dissi che un ombrello ci avrebbe fatto comodo, ma i due parlottavano fra loro e non mi sentirono. Sulla colonna più vicina c'erano degli altri manifesti, roba di réclame, ma dalla parte della strada un pezzo di colonna era scoperto e lì Vincenzi attaccò il primo manifestino dopo averlo premuto sulla spugna. Dissi che dove batteva la pioggia si poteva anche fare a meno della spugna, e mi sporsi a guardare il lavoro di Vincenzi mentre questi rientrava sotto il portico calcandosi in testa il cappello. Anche Giampiero volle guardare e mi strinse un braccio in segno di vittoria. Fui contento per lui. Non si chiedeva se era una gran cosa quello che stavamo facendo. Era qualcosa, dunque bastava. Vincenzi s'era fatto coraggioso e aveva attaccato un altro manifestino sul muro sotto il portico. Per Vincenzi non ero contento, non volevo che per cosi poco si ritenesse un grand'uomo. "Pensate quando la gente li leggerà," disse. In che cosa credeva realmente Vincenzi? Forse mirava a diventare il pittore ufficiale della rivoluzione. Ci allontanammo dal centro, verso quartieri dove c'erano meno luci. Attaccammo alcuni manifestini. A un tratto mi accorsi che Vincenzi aveva cambiato umore. Disse che non sopportava la presenza dei manifesti del partito fascista e delle sue organizzazioni che invadevano i muri. In effetti i nostri erano ben poca cosa al confronto. Fissandomi, Vincenzi disse che era un compito secondario attaccare al muro dei pezzi di carta e che il tempo del sangue non era lontano. Se voleva impressionarmi non ci riuscì, perché l'idea di uccidere il duce non m'era parsa mai come ora remota e sbiadita, lontana di tutti i chilometri che ci separavano da Roma. Giampiero intanto non badava a noi e si dava da fare. Mi feci sotto un muro e attaccai un manifestino, per la verità risultò un po' storto e tentai invano di raddrizzarlo. Vincenzi ci guardava dall'ombra senza lasciar capire cosa avesse in mente. Eravamo in una via stretta e semibuia, dove chi passava non aveva certo voglia di fermarsi a curiosare. Per un po' lavorammo in silenzio. lo non perdevo d'occhio Vincenzi: vedevo che era serio, privo di iniziativa, e reggeva assorto la scatola della spugna mentre Giampiero gli prendeva a mazzetti i manifestini dalle tasche e li sistemava con meticolosa precisione. Giampiero parlava da solo esplorando il muro e le colonne del portico: si lagnava quando trovava già occupato lo spazio che riteneva migliore. Come se i nostri fossero autorizzati e non si potessero attaccare sugli altri. Mi trovavo dall'altra parte della strada e glielo dissi gridando. Vincenzi si avventò contro il muro e stracciò un manifesto asportandone con veemenza un largo lembo. Lo scroscio dello strappo attraversò la strada, Giampiero gridò a Vincenzi di star fermo, ma altri strappi forarono la pioggia. Entrai anch'io sotto il portico. Vincenzi respingeva Giampiero e si accaniva contro i manifesti: li dilaniava con rabbia, a due mani, dicendo come fra sé, senza gridare: "Adesso si fa, adesso si fa lo spazio.» "Ma chi è? È matto?" disse una voce alle mie spalle. Un'ombra, sbucata chi sa da dove corse fra il muro e Vincenzi afferrandogli il braccio. "Sono i manifesti del partito! lo vi denuncio!" gridò l’ombra tentando di prendere anche l'altro braccio di Vincenzi. "Me ne frego!" rispose Vincenzi fuori di sé. "lo li straccio e ti spacco la testa!" L'ombra si dibattè e sparì dietro il corpo grosso di Vincenzi. Urtò contro il muro e fini a terra come una macchia scura. Vidi che era un uomo piccolo e smilzo, che annaspava ai piedi di Vincenzi fra i brandelli dei manifesti strappati. Da una parte, in fondo al portico, veniva gente. Giampiero raccolse la borsa e rapidamente trascinò via Vincenzi. Rimasi un momento fermo e incerto, gelato dalle grida dell'ombra che la volta del portico amplificava come un altoparlante, poi a due passi si accese una finestra e mi misi a correre anch'io. Tagliammo per una rete di vie secondarie e di vicoli oscuri e deserti, nessuno ci inseguiva, ma Vincenzi aveva gli occhi sgranati e si voltava indietro ogni momento. All'imbocco di via Rizzoli piena di luci, smettemmo di correre e ci confondemmo fra la gente che non aveva premura di rincasare. Vincenzi, che aveva perduto il cappello, era ancora stravolto, e Giampiero gli diceva di star calmo, che non era successo nulla, che doveva essere meno nervoso. A un crocevia ci fermammo. Avevamo tutti bisogno di riprendere fiato. "Allora?" domandai io, visto che nessuno più parlava. Vincenzi guardò me e poi Giampiero come chi aspetta degli ordini. Aveva di nuovo cambiato umore ed espressione. Giampiero mi interrogò con gli occhi e io, toccandomi la tasca nella quale avevo ancora la metà dei manifestini, dissi che per me potevamo anche continuare subito ad attaccarli. Vincenzi fece segno di no con la mano. "Non perdiamo altro tempo," disse calmo, con una voce sommessa che non gli avevo ancora sentito. "Fra due o tre giorni devo andare a Roma con dei quadri. Studierò sul posto quello che dovremo fare." A Roma c'era il duce. Le parole di Vincenzi mi diedero un brivido. Una piacevole scossa. Una emozione che non provavo più da molto tempo. "D'accordo?" disse Vincenzi. "Siete ancora decisi? È questione di pochi giorni, e si farà sul serio." Erano le parole che volevo. Giampiero e io dicemmo che nulla era cambiato, e Vincenzi disse che avrebbe avuto piacere di vederci l'indomani sera a casa sua, così, per cementare la nostra amicizia. D'accordo anche su questo. Ci separammo. Dissi che mentre rientravo a casa avrei usato i manifestini che m'erano rimasti come volantini, seminandoli per la strada o dentro i portoni aperti. Giampiero, che se ne andò con Vincenzi, disse che avrebbero fatto così anche loro. Dopo un poco di strada vidi un portone aperto e senza fermarmi infilai in quel buio tre o quattro manifestini. Stavo ripassando per una delle strade che avevamo battuto prima dell'incidente: su una colonna Giampiero doveva aver attaccato dei manifestini. Riconobbi la colonna, e i foglietti erano due, uno accanto all'altro, ma quello in fuori era strappato, ridotto a un piccolo triangolo. Mi avvicinai, meravigliato che li avessero notati così presto. Su quello sano qualcuno aveva scritto in grande, con una matita, una parola: "Fessi." Vicino a casa, dopo aver guardato che non ci fosse nessuno, buttai i manifestini superstiti giù nella grata di una cantina. (pp. 85-97) |